Ancora Che!


Era il 9 ottobre del 1967 quando un argentino di nemmeno quarant’anni, ribattezzato affettuosamente dai cubani Che, per via di quell’intercalare che tanto spesso usava nei suoi discorsi, veniva giustiziato in un piccolo villaggio di montagna boliviano. Da patriota latinoamericano, quale egli si sentiva, stava tentando di esportare il foco della rivoluzione in un altro paese dell’America Latina, dopo la liberazione dell’isola di Cuba da una dittatura appoggiata dagli americani. Catturato, e poi ucciso su pressione proprio di quest’ultimi, venne esposto su un tavolaccio come un cristo morto alla morbosità dei flash e del mondo. Un mondo che la notizia della sua morte sconvolse. E che poco dopo la sua lezione anticapitalista ed antimperialista, introiettata dal Sessantotto, travolse.

Da lì, il mito di quel giovane argentino che soffriva d’asma, che si era laureato in medicina per essere al servizio dei più bisognosi, che aveva scelto di partecipare alla rivoluzione di un popolo vicino, e che poi aveva rifiutato i privilegi del potere per continuare a diffondere la lotta rivoluzionaria e mettersi ancora una volta al servizio degli ultimi, divenne praticamente immortale. Un mito senza tempo, la cui forza stava non tanto nelle parole (di cui rimane comunque una straordinaria eredità), ma nell’esempio. L’esempio di chi seppe coniugare come pochi altri nella Storia, l’azione al pensiero, la ragione alla passione. E soprattutto di chi elesse l’uguaglianza ad ideale massimo, a metro della propria vita, e assieme, prefigurazione della propria morte. Morte che, per chi sceglie la strada della purezza rivoluzionaria, non può che divenire una compagna fedele dei propri giorni. Una compagna che nell’animo inquieto del Che condivise costantemente il posto con un’insofferenza esistenziale ed una coscienza morale che andavano ben oltre l’ideologia. Fino quasi a sfiorare, come ebbe a dire lo scrittore Paco Ignacio Taibo II, la santità. Una santità laica che nonostante la sconfitta (o forse proprio per questo) ha conquistato continenti e generazioni lontane e diverse.

Ciò che infatti ha reso Ernesto Guevara quel mito che ancora oggi è, probabilmente è stata la sua scelta eretica spinta fino alle estreme conseguenze. Quel suo spirito indipendente, estraneo a qualsiasi ortodossia, che sempre lo portò a pensare con la propria testa fino a far maturare in lui una critica irriducibile al potere. Un’indisponibilità al compromesso, morale prima ancora che politico, che lo spinse alla critica del socialismo sovietico e a divergere da quello cubano. Perché per il Che il fine ultimo della rivoluzione non era la conquista del potere, ma l’edificazione di una società nuova fondata su una morale rivoluzionaria. Una società che avrebbe dovuto mettere al centro l’uomo e la sua liberazione dall’alienazione. Altrimenti il comunismo non sarebbe stato altro che un metodo di ripartizione della ricchezza un po’ più equo.

Una società nuova, dunque. Ciò che Ernesto Guevara auspicava e forse scrutava in quella magnifica foto del 1960, stampata poi su milioni di bandiere e magliette. Libera dal bisogno, dallo sfruttamento, ma anche dalla paura. Paura che all’epoca del Che, in piena guerra fredda, significava sostanzialmente apocalisse nucleare. Come quella che si rischiò nel ’62 con la crisi dei missili di Cuba. La stessa che ora, ancora a causa di imperialismi contrapposti, si riaffaccia sul palcoscenico della Storia. La stessa di cui il rivoluzionario argentino vide le sconvolgenti conseguenze in un viaggio del ’59 in Giappone. “Per combattere meglio per la pace, bisogna guardare a Hiroshima”, furono le sue parole. Un santo forse no, ma un partigiano dell’umanità sempre dalla parte dei popoli, questo certamente sì.

Fenomeno umano


Era un caldo pomeriggio di maggio, che sapeva già d’estate. Un sabato. Una di quelle giornate in cui il mare ha un richiamo quasi irresistibile. Eravamo appena rientrati dalla spiaggia, quando la sigla inconfondibile del tg, insolita per quell’ora, mise in pausa noi e l’Italia intera.

Le parole Edizione straordinaria guadagnano immediatamente l’attenzione di tutti. Poi, immagini che non riesci esattamente a decifrare. Una scena di guerra: fumo, auto distrutte, macerie. Ma che cos’è? Un attentato in Medio Oriente? No. Lassù, sullo sfondo di quella impressionante devastazione, due cartelli autostradali verdi con sopra scritto Palermo e Capaci.

Il 23 maggio, quel 23 maggio di trent’anni fa, come accade per tutte le date speciali, quelle che mentre le vivi hai già la sensazione entreranno nella Storia, è uno di quei giorni in cui molto probabilmente ognuno di noi ricorda dov’era e cosa stava facendo, quando dai televisori di tutto il paese iniziarono a rimbalzare le immagini della strage di Capaci. Cinquecento chili di tritolo che sventrarono un tratto dell’autostrada di Palermo, cancellando cinque vite: quelle del giudice Falcone, di sua moglie e di tre agenti di scorta. E che d’un colpo cancellarono dai cuori degli italiani la speranza che la mafia, “come tutti i fenomeni umani”, dopo un principio ed un’evoluzione, avrebbe avuto anche una fine. Ma che invece segnarono l’inizio di una stagione di bombe e terrore lunga oltre un anno. Una stagione, avremmo scoperto più tardi, che rappresentava la risposta della mafia ai duri colpi subiti negli anni Ottanta da quella parte di Stato che aveva deciso di dichiararle guerra. A cominciare dal pool di Palermo. Da Falcone e BorseIIino, che dietro quella stagione di sangue, avevano già intravisto la presenza di un’altra mano. Il tramare di “menti raffinatissime” che seguivano un disegno di destabilizzazione dello Stato. Un progetto eversivo, diranno poi le inchieste successive, finalizzato anche ad annodare nuovi legami tra mafia e un mondo politico squassato dal terremoto giudiziario di Mani pulite. Convergenze d’interessi inconfessabili in parte emerse col tempo, che però a trent’anni da Capaci e Via D’AmeIio non hanno inchiodato alle loro responsabilità alcun mandante esterno. Nessun puparo, direbbero in Sicilia, che mosse i fili nell’ombra.

Oggi, quel rapporto quasi simbiotico tra mafia e politica, quel nesso profondo tra pezzi deviati dello Stato e criminalità organizzata, documentato dai processi sulla trattativa stato-mafia, forse non è più quello di un tempo. Così come non è più lo stesso il metodo d’indagine: fondato su tecniche e sistemi sempre più avanzati, che molto però devono ancora alle intuizioni investigative di Falcone e del suo pool; dal famoso follow the money all’uso delle intercettazioni, passando per la ricerca incessante di riscontri e prove incrociate. Ma quello che preoccupa, oltre che l’attecchire delle mafie anche in aree del paese lontane dalle regioni d’origine, è il persistere di una mentalità mafiosa dura a sradicarsi. Una mentalità che nessuna legislazione antimafia, neppure la più ferrea, evidentemente riuscirà ad estirpare senza un cambiamento culturale radicale e un impegno politico e civile costanti. Perché se davvero vogliamo che un giorno tutto quello che sa di mafia diventi solo un brutto ricordo, se vogliamo che quelle morti che travolsero la promessa di una nuova estate non siano state vane, non possiamo permetterci “pause d’attenzione verso questo fenomeno”. In fondo, pur sempre un fenomeno umano, su cui la stragrande maggioranza degli italiani non vede l’ora si compia la profezia di Giovanni Falcone.

Crash di memoria


Che i detrattori della Resistenza fossero in costante aumento nel nostro paese non è certo una novità: è una storia che oramai va avanti da diversi decenni. Ne abbiamo sentite di tutti i colori. Dalla progressiva negazione delle radici resistenziali ed antifasciste della Repubblica, all’affermazione di una narrazione distorta in cui la Resistenza da lotta di liberazione diventa guerra civile. Dall’equiparazione delle ragioni di chi combatté per la libertà con quelle di chi combatté contro di essa, alla più recente riduzione del giorno della Liberazione ad un “derby tra comunisti e fascisti”, compiuta da un ex-ministro della Repubblica. Una deriva revisionista insomma che ci ha poco alla volta portati a considerare il 25 Aprile come una ricorrenza di parte, e in parallelo, a sviluppare un pericoloso sentimento di condiscendenza verso il riaffacciarsi sulla scena di movimenti e pulsioni di stampo fascista.

Come se tutto questo già non bastasse, con la guerra russo-ucraina, è arrivato l’ultimo inopinato assalto alla memoria della nostra Resistenza: l’equiparazione della lotta partigiana italiana del ‘43-’45 con quella ucraina di oggi. Un accostamento dal punto di vista storico, nonché politico, obiettivamente improponibile. Concepibile solo nell’ottica propagandistica di un arruolamento collettivo nella guerra in corso, e magari chissà, nella guerra dell’Occidente “buono” contro il resto del mondo, a cominciare dal gigante russo “cattivo”.

Improponibile, innanzitutto perché la nostra Resistenza fu senza alcuna ambiguità antifascista, mentre in Ucraina da anni, la presenza di forze di chiara matrice nazista, a cominciare dal parlamento ucraino, è grande e risaputa. Diciamo che, essere antifascisti nell’Ucraina d’oggi non va esattamente d’accordo con l’esaltazione ultra-nazionalista che serpeggia nel paese.

Improponibile, perché il nostro movimento partigiano era organizzato su basi volontarie e popolari in opposizione alla leva obbligatoria della Repubblica Sociale mussoliniana, mentre la cosiddetta resistenza ucraina poggia su un esercito regolare formato e armato dalla NATO, sulla legge marziale e sulla coscrizione obbligatoria per tutti gli uomini dai 18 ai 60 anni.

Improponibile, perché i nostri partigiani dopo vent’anni di regime non lottavano solo per la libertà, ma lottavano per un’altra Italia. Per un’Italia diversa e democratica. Mentre in Ucraina si tratta di ristabilire lo stato anteguerra. Uno stato non propriamente democratico, dove non esiste pluralismo politico e la corruzione è tornata a dilagare.

Improponibile, soprattutto perché la nostra Resistenza aveva l’obiettivo cruciale di porre fine alla guerra. Di raggiungere la pace il prima possibile. Prima che la popolazione civile soffrisse ulteriori inutili sofferenze. Mentre la richiesta pressante di nuove e più micidiali armi del presidente ucraino e delle sue forze militari sembrano andare nella direzione esattamente opposta.

Una direzione che invece di portarci fuori dalla guerra, finirebbe col prolungarla, e magari con l’estenderla. Proprio quello che gli italiani di oggi e di ieri, nonostante la propaganda incessante di queste settimane, non vogliono. Proprio quello che coloro che scrissero l’articolo 11 della Costituzione, quei partigiani che ci liberarono dalla guerra e dal fascismo, si augurarono di non rivedere mai più.

Nato per distruggere


Alla fine, è successo: Putin ha invaso l’Ucraina, e la guerra ha invaso le nostre vite. Magari di striscio, per il tramite di uno schermo, ma sempre d’invasione si tratta. In tv e sui giornali, non si parla d’altro. E persino la pandemia, con la nostra italianissima “guerra” tra vaccinati e non, sembra sia passata in secondo piano. Dopo ventitré anni dai bombardamenti Nato di Belgrado, tornano così nei cieli d’Europa il bagliore dei missili e il fragore dei caccia.

Ma la guerra in Ucraina, che sembra aver colto di sorpresa gran parte del nostro sistema politico-mediatico, in realtà non è storia d’oggi. Prima, ci sono stati otto anni di guerra completamente ignorati nella regione del Donbass: un conflitto “a bassa intensità” ma sanguinosissimo, che nel silenzio e nell’indifferenza della nostra informazione e della politica ha prodotto oltre quattordicimila morti e ben due milioni di profughi. E prima ancora, c’è stata una lunga stagione post Guerra Fredda in cui la vera minaccia alla pace e agli equilibri geopolitici mondiali, più che dall’Est, è venuta dal “vittorioso” Occidente. Un trentennio di riarmo insensato che ha portato il bilancio militare annuale della Nato oltre i mille miliardi di dollari, e la spesa militare mondiale del 2021 al doppio di quella della Alleanza Atlantica: duemila miliardi di dollari. Cifre mostruose se si pensa proprio all’emergenza sanitaria da cui stiamo lentamente venendo fuori, o all’annoso problema della carenza alimentare mondiale. Trent’anni, in cui l’Occidente a guida americana, con l’alibi della protezione umanitaria, ha combattuto guerre a ripetizione, destabilizzando intere regioni: dall’Afghanistan alla Siria, passando per l’Iraq e la Libia. Guerre fatte per “esportare la democrazia”, benedette come giuste da gran parte di quello stesso sistema politico-mediatico che oggi sbandiera la sovranità nazionale ucraina, e concluse lasciandosi alle spalle macerie e caos. Un interventismo “democratico” che francamente non ha nulla da invidiare al militarismo di dittature e democrature oggi sparse per il mondo, ma su cui in fondo si è sempre chiuso gli occhi. Per non dire della dissennata ed arrogante strategia di allargare la sfera d’influenza di un’alleanza militare chiaramente offensiva fino ai confini di un paese ancora considerato come fosse il nemico sovietico: un nemico incatenato al suo status di ex-superpotenza sconfitta. Strategia che si è rivelata un grave errore perché ha risvegliato il nazionalismo russo, ed ha favorito una sua sempre più marcata definizione in senso antioccidentale. Ancora più sconsiderato se si pensa che nel caso proprio dell’Ucraina, da secoli denominata piccola Russia, si parla di un paese che dal punto di vista linguistico, culturale, economico, ed anche politico (non dimentichiamo che questa terra ha dato al vecchio PCUS tre segretari) ha legami profondissimi con la Russia.

In questo contesto, si capisce bene che il tentativo di “vendere” all’opinione pubblica buoni e cattivi ha poco senso, se non quello di esasperare ancora di più gli animi ed aumentare la confusione. Risultato a cui il giornalismo con l’elmetto, sempre pronto ad alimentare la tensione e ad assecondare la propaganda atlantista, era già arrivato nelle scorse settimane, quasi chiamandosi lo scoppio delle ostilità.

Né con Putin né con la Nato, gridano gli studenti nelle piazze pacifiste. Contro una politica incapace di fermare l’escalation militare, la crescita della spesa globale in armamenti, e il riarmo nucleare. Contro la guerra, chiunque sia a scatenarla, e gli opposti imperialismi.

Per un pianeta sospeso tra il surriscaldamento globale e l’inverno nucleare a causa dell’uomo, sembra ragionevole. A patto che si convenga ancora che l’estinzione della nostra specie non la voglia proprio nessuno.

2001-2021: ritorno aI mondo nuovo


O siete con noi, o siete contro di noi: queste furono vent’anni fa le parole dell’allora presidente degli Stati Uniti all’indomani dell’attacco terroristico dell’11 settembre. L’America, colpita al cuore, doveva reagire. Per farlo si sarebbe servita della sua incontrastata supremazia politica, economica e militare sul resto del mondo. E chi si fosse permesso di dissentire, di ostacolare la sua sete di vendetta, si sarebbe ritrovato presto nell’elenco dei nemici dell’America.

L’Afghanistan era solo il posto che ospitava i terroristi, quelli copiosamente finanziati ed armati ai tempi della guerra russo-afghana (peggio degli islamisti, solo i comunisti!), ma andava annientato. Quei fanatici lì, guidati proprio da uno sceicco al soldo degli statunitensi in Afghanistan, avevano già provato nel 1993 a far venire giù le Torri di Manhattan con un furgone-bomba, ma non c’erano riusciti. Ora bisognava fargliela pagare. Il giochino di allearsi con loro nella guerra santa contro il “pericolo comunista” si era rotto già da tempo: gran parte degli attentati compiuti negli anni Novanta contro gli USA in giro per il mondo, portavano proprio la firma degli ex-combattenti protagonisti della jihad anti-sovietica. Per anni, dopo la sconfitta di Mosca, agenti statunitensi avevano girato in lungo e in largo il paese per comprare sia le stesse armi americane sul mercato nero afgano sia il silenzio dei mujaheddin, ma ora i soldi non bastavano più. Serviva altro. Un’altra guerra. Non bastava quella combattuta per quasi tutti gli anni Ottanta, durante la quale un terzo della popolazione afgana era rimasta uccisa, ferita o era stata costretta a fuggire. Quella che si andava inaugurando all’inizio del Terzo millennio era qualcosa di nuovo: se dio lo vorrà sarà una guerra al terrorismo, disse all’epoca in un’intervista il senatore Biden. Intanto, in nome di dio, con l’uscita di scena dei sovietici e l’abbandono del paese da parte degli occidentali, i talebani calavano la loro scure medievale sull’Afghanistan.

Ma dopo l’11 settembre 2001, un’altra scure era destinata ad abbattersi. Non su un piccolo e remoto paese dell’Asia centrale questa volta, ma su tutti noi. Con l’autorizzazione all’uso della forza senza limiti temporali e territoriali, e il successivo Patriot Act, la “sicurezza” diventava la bussola di tutti i governi del mondo, e ogni normale cittadino era destinato a trasformarsi in un sospetto. Tutti potevano essere potenziali terroristi, per cui diritti e libertà individuali dovevano essere compressi in nome di una sempre maggiore sicurezza. Si trattava di misure vaghe, che consegnavano poteri spropositati a chi era a capo del paese, e che tesero da quel momento a confondere l’esercizio del dissenso con la sovversione, quando non addirittura con il terrorismo (in queste infide sabbie mobili affondò lo stesso movimento No-global). Ma anche misure fondamentalmente incostituzionali, presentate come provvisorie, di volta in volta però sempre rinnovate. Tanto da diventare col tempo la base legale su cui instaurare negli Stati Uniti un sistema di sorveglianza (le comunicazioni dei cittadini americani sono state sistematicamente spiate per anni), mappatura e persecuzione delle minoranze (quella afroamericana, in particolare). Un sistema fondato sulla diffusione di un clima di paura sostenuto ad arte da media ridotti a megafono della propaganda governativa, che i cittadini tolleravano perché convinti fosse finalizzato alla cattura dei terroristi, e invece serviva a controllare loro.

Dieci anni dopo l’attacco terroristico del 2001, un altro senatore statunitense lanciò un avvertimento che recitava pressappoco così: quando il popolo americano scoprirà qual è stata la reale funzione delle leggi contro il terrorismo sarà stordito e arrabbiato, soprattutto perché questa enorme opera di sorveglianza non avrà portato praticamente a nulla. Né a sconfiggere il nemico talebano e pacificare il paese da cui tutto era cominciato né tantomeno a sconfiggere il terrorismo, aggiungiamo noi dopo altri dieci anni.

“Mai è accaduto che tanti uomini si lasciassero manipolare da un così ristretto gruppo”, leggiamo in uno dei più grandi capolavori della letteratura distopica del Novecento incentrato sul tema del controllo delle masse da parte del potere. Ebbene, la realtà scaturita dagli eventi dell’11 settembre si è dimostrata all’altezza della più fervida immaginazione. E questo mondo nuovo post-pandemico che va lentamente definendo i suoi contorni, parente stretto di quello sorto vent’anni fa, si annuncia, se possibile, anche peggiore.

Senza ritorno


Gli abitanti di Pripyat che guardano incantati dal ponte della ferrovia, neanche fossero fuochi d’artificio, i bagliori fiammeggianti provenienti dalla centrale, mentre il reattore numero 4, simile ad un vulcano, sta eruttando milioni di isotopi radioattivi nell’aria. Forse è questa la scena, mirabilmente ricostruita dalla fortunata serie tv dedicata al disastro di Chernobyl, che meglio di ogni altra rende l’idea della grande contraddizione del nucleare: simbolo delle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità e della sua tecnologia più all’avanguardia, che tuttavia in un giorno di primavera di trentacinque anni fa rivelò al mondo intero la sua catastrofica pericolosità.

Errore umano o guasto tecnico, quel disastro generò effetti di gran lunga più devastanti di quelli delle due bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki messe assieme. Effetti ambientali che raggiunsero i 500 chilometri di distanza, interessando l’intera Europa centro-orientale, fino a lambire la stessa Italia settentrionale. E che resero inabitabili per centinaia d’anni estese porzioni di territorio al confine tra Ucraina e Bielorussia: un divieto che nel caso della cittadina di Pripyat, e della exclusion zone di trenta chilometri attorno alla centrale, gli scienziati stabilirono in circa 3 mila anni. Sì perché dopo l’esplosione, più di un milione e mezzo di ettari di terreno andarono contaminati, finendo con l’avvelenare le falde acquifere, le radici delle piante, gli organismi degli animali. Un’alterazione dell’equilibrio biologico capace di produrre gravi ripercussioni sull’alimentazione umana, e che naturalmente determina col tempo l’assorbimento di grandi quantità di sostanze radioattive.

Alla luce di questa catena di conseguenze disastrose, tra cui non può non ricordarsi l’aumento esponenziale di malformazioni congenite e tumori tra i circa 10 milioni di persone coinvolte, quelle 65 vittime “dirette” del bilancio ufficiale delle autorità sovietiche, suonano ancora come un oltraggio all’enorme sacrificio della popolazione, una pagina nerissima del rapporto quasi sempre conflittuale tra regimi e verità. Tanto più che studi autorevoli stimano almeno 40 mila morti nell’arco di ottant’anni, a causa soprattutto delle mutazioni genetiche che si trasmetteranno di generazione in generazione.

Numeri enormi, esattamente come quel milione e 100 mila tonnellate di acque contaminate che i giapponesi, per mancanza di spazio, ora vorrebbero scaricare in mare, in quel di Fukushima: altro nome ormai indissolubilmente legato ad una catastrofe nucleare. Quattro reattori danneggiati pesantemente, milioni di danni, ed una certezza: a pagare non sarà la società proprietaria della centrale, ma il Giappone e, soprattutto, il mare che lo bagna.

Un prezzo altissimo quello del nucleare, insomma, che oltre nel caso d’incidenti fa sentire la sua gravità anche quando si affronta il capitolo stoccaggio delle scorie e dismissione delle centrali. Procedure complesse, lunghe e costosissime, con cui è tuttora alle prese anche il nostro paese, dopo due referendum che hanno visto l’affermazione del No al nucleare.

Sul “ponte della morte” della città di Pripyat, ora non c’è più nessuno. Solo fantasmi. Ai suoi abitanti, il giorno dell’evacuazione, fu promesso che la loro assenza sarebbe durata due o tre giorni. Non ritornarono mai più indietro. Non facciamolo nemmeno noi.

La vera dannazione


Cent’anni e non sentirli, verrebbe da dire. Non sentirli, anche se è da trent’anni che sei morto. È forse questo il paradosso del vecchio PCI. Il vecchio, grande e mai dimenticato PCI: il più importante partito comunista del mondo occidentale che oggi compie il suo centesimo compleanno.

Era il 21 gennaio 1921, infatti, quando la storia della sinistra italiana e del nostro paese cambiò per sempre. Ultimo giorno del XVII congresso del PSI di Livorno. Dopo un acceso confronto tra le tre anime del partito durato sei giorni (Sissignore, sei! Altro che primarie!), i delegati comunisti lasciavano il Teatro Goldoni sulle note dell’Internazionale, e si ritrovavano a poco più di un chilometro al Teatro San Marco. Un teatro, il San Marco, malandato, dove la pioggia filtrava dal soffitto e toccava stare con l’ombrello aperto. Ma nemmeno il più violento temporale, quel giorno, avrebbe potuto spegnere il fervore rivoluzionario dei delegati comunisti, perlopiù giovani e giovanissimi: trenta, ventisei, ventuno, gli anni rispettivamente di Antonio Gramsci, Umberto Terracini e Amedeo Bordiga, solo per restare ai fondatori del partito.

Da quel giorno, da quella scissione che lo stesso Gramsci definì una sciagura necessaria, ebbe inizio una storia fatta di vittorie e sconfitte, militanza e passione, lotta e governo (più lotta che governo, a dire il vero), e naturalmente errori. Errori quasi mai compiuti fuori dal recinto politico ed ideologico, per interessi infimi o particolari. “Se abbiamo fatto del male lo abbiamo fatto a fin di bene” ha ricordato il papà di Bobo, il vignettista Sergio Staino. E, in effetti, i tentativi di questi giorni dell’informazione mainstream di accollare alla scissione di Livorno la responsabilità dell’ascesa del fascismo farebbero addirittura sorridere se non fosse vero che in nome proprio della lotta al fascismo, i comunisti pagarono un tributo altissimo: più dei tre quarti dei condannati e confinati del ventennio fascista furono comunisti; oltre il 50% dei 230mila partigiani della Resistenza furono comunisti. Ma la colpa della marcia su Roma e dell’instaurazione del fascismo, insistono, fu del PCI. Non del Re, del Papa, o della Fiat che forniva i mezzi ai squadristi in camicia nera. No! Degli uomini e delle donne che in nome della libertà e della giustizia più di tutti patirono la violenza e le persecuzioni del regime: ecco di chi fu la colpa! Il già citato Umberto Terracini, l’uomo la cui firma è in calce alla nostra Costituzione, con i suoi 18 anni di carcere e confino, è l’italiano che ancora oggi detiene il “record” di prigionia per motivi politici. Quando Pietro Ingrao parlava di una “tradizione di libertà” dei comunisti italiani, checché ne dicano revisionisti e anticomunisti di ogni latitudine e stagione, era a questo che pensava. Se a distanza di anni, c’è ancora chi mette in discussione l’originalità e l’autonomia dell’esperienza storico-politica del PCI rispetto a quella del resto del movimento comunista internazionale, allora i problemi sono due: o si tiene il libro della Storia a rovescio o c’è malafede. Perché quel partito che portò sulla scena della Storia le classi subalterne convincendole di poter cambiare il mondo con l’azione collettiva, dimostrò a più riprese di essere una forza diversa, sinceramente democratica. La Resistenza al fascismo, la Svolta di Salerno, la Costituzione, ma anche la denuncia dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia del ‘68, la lotta al terrorismo, “lo strappo” del ‘77 di Berlinguer con l’affermazione “del valore storicamente universale della democrazia sul quale edificare una originale società socialista”, la condanna dei fatti di Piazza Tienanmen dell’89, cos’altro sono se non la prova di uno smarcarsi di tutta la vicenda comunista italiana dall’esperienza del socialismo reale?

A negare questa verità storica oggi sono ancora in tanti, ma a non capirlo trent’anni fa furono gli stessi dirigenti PCI del cosiddetto “nuovo corso”. Quei ragazzi di Berlinguer che evidentemente dell’insegnamento del loro padre politico non avevano ben capito la lezione. “Non ci può essere invenzione, fantasia, creazione del nuovo se si comincia dal seppellire se stessi, la propria storia e realtà”, disse il Segretario comunista in polemica col nuovismo liquidazionista che stava cominciando a prendere piede già agli inizi degli anni Ottanta. Col progressivo confondersi dell’obiettivo dell’alternativa di sinistra’ con quello della pura e semplice alternanza al governo del paese, il trasferimento della selezione dei quadri di partito dalle funzioni politiche a quelle amministrative, e lo stabilirsi di rapporti sempre più continui e stabili di quegli stessi quadri con la classe dirigente nazionale, una parte cospicua della prole berlingueriana finì così col subire i meccanismi integrativi e omologanti del sistema. Un percorso che condusse dritti a quell’abbaglio storico e politico che fu la Svolta e lo scioglimento del PCI, e alla successiva subalternità, quando non addirittura sudditanza politica e culturale, della sinistra italiana postcomunista alla vulgata neoliberista. La fine di una grande comunità di destino e valori che poi, nient’affatto casualmente, coincise con la lenta agonia di una concezione della politica intesa come grande progetto storico e di massa finalizzato alla trasformazione della società e non solo al mero governo dell’esistente.

Oggi, davanti ad una politica sempre più svuotata di contenuti e di vincoli morali, alla crescente abulìa delle classi subalterne, alla frantumazione del mondo del lavoro, ad un riformismo di basso profilo incapace d’incidere sul reale, al riaffacciarsi di fascismi e razzismi in grado di intaccare il senso comune di ampi strati di popolazione, la mancanza di quel partito, con il suo nome, la sua storia, la sua diversità, è forte. Perché la fine del PCI, lungi dall’essere un nuovo inizio, è stato un crocevia della nostra storia che ha di fatto indebolito sia la sinistra che il paese. L’inizio della fine. Ecco, quella sì, una vera dannazione.