Lobby preferito


Durante questa pandemia che ci stiamo lasciando alle spalle, spesso si è ricorso al paragone simbolico con la guerra. Una guerra contro un nemico terribile ed invisibile, combattuta prima con le armi un po’ spuntate dei gel disinfettanti e delle mascherine, e poi con quella più possente, ma anche più controversa, dei vaccini. Da quella “guerra”, oggi che il mondo ne sta finalmente venendo fuori vincitore, c’è però qualcuno che ne è uscito più vincitore degli altri. Mentre qui in Italia, a differenza che altrove, ci si scandalizzava per il reintegro dei cosiddetti medici no-vax, oltreoceano la PFlZER annunciava il traguardo dei 100 miliardi di dollari di fatturato, con un aumento del 30% rispetto al 2021. Incremento strettamente legato al giro d’affari sul covid. Un’impennata dei profitti che a fronte della progressiva uscita dalla pandemia, e soprattutto del crollo delle vaccinazioni (nel 2022 la metà rispetto al 2021), non accenna ad arrestarsi. Sì perché in un mercato monopolizzato da poche case produttrici come quello farmaceutico, la legge della domanda e dell’offerta sostanzialmente non vale. Così, nonostante la domanda sia in forte calo, e i governi di mezzo mondo siano costretti a smaltire milioni di fiale in scadenza, il prezzo di una dose di vaccino continua a salire: fino ad una previsione per il 2023 di 110-130 dollari a dose (il quadruplo rispetto ad oggi), a fronte di un costo di produzione appena di 1-2 dollari. Un paradosso palese che si spiega col fatto che le grandi e poche case farmaceutiche dominanti sul mercato hanno i brevetti dei vaccini, e sono dunque libere d’imporre il prezzo che vogliono. Soprattutto se il covid va trasformandosi, più di quanto non lo fosse già all’inizio, in una malattia da paesi ricchi.

Gli stessi paesi, grossomodo, impegnati oggi con un’altra malattia, molto più antica e radicata nella storia dell’uomo: la guerra. Anche qui, sebbene ancora non si possa dire come andrà a finire il conflitto russo-ucraino, è già certo chi sarà il vero vincitore. Negli ultimi mesi, i titoli azionari delle principali società dell’industria degli armamenti sono schizzati alle stelle. Tra loro naturalmente, quelli dei primi cento produttori di armi al mondo, di cui la metà sono americani. Gli stessi che stanno inondando lo scenario di guerra ucraino di ogni sorta di congegno militare, realizzando di fatto una partita di giro, nella quale a guadagnare è sempre lo Zio Tom. Un business enorme ben nascosto sotto la retorica della “guerra giusta”, e sotto le innumerevoli pennellate della propaganda bellicista finalizzata a convincere l’opinione pubblica della necessità di armarsi e armarsi ancora. Fino a determinare una corsa generalizzata al riarmo che nell’ultimo anno ha portato la spesa militare mondiale ben oltre la cifra record dei 2100 miliardi di dollari. Esito naturale della competitività crescente tra opposti imperialismi, plasticamente sintetizzato dal conflitto ucraino, su cui la potente lobby bellica sta macinando guadagni stratosferici. Tanto da rendere ormai oggettivamente poco credibile la narrazione che i motivi di quel conflitto siano solo territoriali, politici, o addirittura morali (la difesa dei valori democratici e della popolazione ucraina), anziché principalmente economici. Come ad esempio appunto produrre, vendere ed inviare in un teatro di guerra, che rischia di diventare nucleare, miliardi di dollari in armi.

Viviamo una fase della storia del capitalismo in cui gli interessi di grandi multinazionali, speculatori e guerrafondai s’intrecciano e si saldano in modo inestricabile, minacciando la vita e la pace di tutti noi. Abbiamo fatto la guerra ad un virus e ad un autocrate (uno dei tanti, in verità) ammantando tutto di una coltre di retorica e propaganda. Sotto quella, occultati a dovere c’erano, e sempre ci saranno, interessi estremamente materiali altrettanto pericolosi.