AAA cercasi governo: astenersi Renzusconi

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A quasi due mesi dalle elezioni del 4 marzo la politica nostrana stenta a trovare la quadra. La formazione di un nuovo governo resta un miraggio e sulle bocche di tanti italiani, giorno dopo giorno, affiora il comprensibile interrogativo: ma allora che siamo andati a votare a fare? Consci del fatto che gioco-forza i più “soddisfatti” oggi non possano che dirsi quei svariati milioni di persone che non si sono recati alle urne – i quali sono vieppiù legittimati a riaffermare la loro sfiducia nella politica oltre che le loro “eccezionali” facoltà predittive: si sapeva che sarebbe andata a finire così! – viene da chiedersi ad oggi quale possa essere lo stato d’animo di chi quella crocetta sulla scheda elettorale, magari tra mille dubbi, alla fine è andato a metterla.

Partiamo dai vincitori. Sì, ma quali? Forse sta qui il più grande equivoco. All’indomani dello spoglio, sia il centrodestra che il Movimento Cinque Stelle hanno rivendicato a sé questo ruolo: il primo con il suo 37% di coalizione, il secondo con il suo 32% di lista. Presto però entrambi hanno dovuto fare i conti con la dura realtà: l’assenza dei numeri necessari per potersi dichiarare veri vincitori. A quel punto qualcuno deve aver spiegato loro che con il Rosatellum non si poteva ragionare così. Non si potevano applicare logiche maggioritarie ad un sistema elettorale tornato proporzionale. Bisognava parlarsi. Ma anche qui, nonostante la comparsa sui muri, o forse proprio per questo, di quel bacio appassionato tra Di Maio e Salvini, la realtà ha preso subito il sopravvento sulla fantasia. “Lui chi è? Come mai l’hai portato con te?” è diventata la domanda ricorrente del leader pentastellato di fronte all’atteggiamento ondivago della nuova fiamma leghista. Fine precoce di un amore, dunque? Salvo un clamoroso quanto inatteso passo di lato di Don Rodrigo da Arcore, sembrerebbe di sì.

Ma allora, tornando all’elettore di cui sopra, cosa deve pensare l’italiano che il 4 marzo ha messo la sua bella croce sul simbolo dei Cinque Stelle o del centrodestra? Volendo azzardare una risposta, diremmo, sollievo. Ammettendo pure che ad Arcore sbarchino gli alieni portandosi via tutti gli abitanti (a volerla dire tutta, uno in particolare), riducendo l’alleanza di governo ad un più asciutto M5S più Lega, credete che l’elettore medio grillino si straccerà le vesti se la flat tax non vedrà la luce? Oppure, pensate che l’imprenditore veneto, leghista da sempre, si rammaricherà di fronte all’allontanarsi del reddito di cittadinanza? Tanto più che le due misure hanno una piccola controindicazione di bilancio: una esclude l’altra. Il che già la dice lunga sulla compatibilità dei programmi di Cinque Stelle e Lega. E a nulla vale assimilare l’elettorato grillino a quello leghista spacciandolo per un’indistinta marea populista. Certo, non mancano i fautori di questa convergenza sia nell’uno che nell’altro schieramento. Nessuno nega l’esistenza di un’attrazione reciproca, ma sottacere che essa trovi fondamento solo nella volontà di discontinuità che anima entrambi i soggetti, dal vertice alla base, sarebbe miope. Come miope sarebbe pensare che questo possa bastare per formare un governo e, soprattutto, farlo durare.

Proprio il precetto della rottura con il passato rende, d’altra parte, impervio il percorso di un’altra suggestione di governo affacciatasi all’orizzonte: quella che passa per un’alleanza M5S-PD. Un’ipotesi neanche lontanamente immaginabile il 4 marzo ma che ad oggi sembra essere l’unica alternativa possibile al ritorno alle urne. Se c’era una cosa certa a questo mondo, infatti, era che l’elettore che aveva votato PD il 4 marzo, era stato convinto di essere antitetico a quello che lo stesso giorno aveva votato M5S, il quale a sua volta era stato persuaso di essere alternativo al primo. Ma, al netto degli hashtag #senzadime dei militanti Dem contrari all’accordo, che subito ha trovato sponda nell’alzata di scudi dei grillini che fino a ieri apostrofavano i primi con l’appellativo di pdioti, qui il vero problema, più che una reale divergenza di visioni, sembra essere l’ “attaccamento alla vita”, politica s’intende, dell’ex segretario PD. Se è comprensibile che l’elettore piddino nutra un umano risentimento verso i Cinque Stelle e i loro improperi anti-Dem, e quello grillino viva l’avvicinarsi del suo partito a quello democratico come un tradimento, è altrettanto vero che negli ultimi anni forte è stata la mobilità elettorale tra le due basi. Segno che un’affinità, tra l’esemplare dell’italiano grillino e quello piddino, in termini soprattutto di attenzione ai temi della lotta alla povertà e alle diseguaglianze, in fondo esiste. Ambientalismo, progresso dei diritti civili, lotta alla mafia e alla corruzione, oltre che un sano e rinnovato anti-berlusconismo, potrebbero fare il resto. Potrebbero, certo. Ma servirebbe il sacrificio dell’Innominato di Rignano, o quantomeno, una sua conversione. Vista, però, la scarsa confidenza con il pentimento del soggetto, forse meglio il sacrificio.

Nel frattempo, in attesa di passi indietro, di lato o, se Dio vuole, in avanti, all’elettore sballottato di qua e di là, che ha fatto lo sforzo di recarsi alle urne, e che oggi non fa altro che chiedersi se sia valso la pena mettere quella crocetta, l’unico consiglio che sentiamo di dare è di restare in ascolto e aspettare notizie. Belle o brutte, si vedrà. Immaginiamo che per lui, l’importante è che arrivino. Giusto per non farsi ridere appresso. Giusto per non darla vinta a chi il 4 marzo è rimasto a casa. Giusto per non passare come quello che si è fatto fregare dalla democrazia.