Lucciola coreana

cinema parasite bong lottadiclasse guerratrapoveri disuguaglianze


Due ore e passa trascorse senza mai annoiarsi: tra risate, suspense, colpi di scena e sorrisi amari. Tutto questo, in una delle tante arene cinema estive sparse per l’Italia sfidando il Covid. Tutto questo, e molto di più, in Parasite, l’ultimo film del coreano Bong Joon-Ho, vincitore di quattro premi oscar, tra cui l’ambitissima statuetta per il Miglior Film (prima volta nella storia per una pellicola non anglofona). Molto di più, perché spietata e incisiva rappresentazione dei rapporti di classe nella società capitalistica contemporanea: merce rara ormai nel cinema occidentale.

Sobborghi di Seul, anni dieci del duemila, la famiglia Kim vive miseramente in uno squallido seminterrato mantenendosi con lavori precari e scroccando il Wi-Fi ai vicini. Ad un tratto, la svolta. Al figlio dei Kim si presenta l’occasione di accedere al mondo dei ricchi impartendo ripetizioni private. Ma è solo l’inizio: uno alla volta i Kim sperimenteranno quella stessa fortuna; una sorta di ascensione, in senso geografico, visto che i ricchi vivono nella parte alta della città, prima ancora che sociale. Fin qui la parte divertente e grottesca della storia, fatta di sottoproletariato che con scaltrezza si arrangia come può, e alta borghesia beatamente isolata nel proprio microcosmo privilegiato. Poi le cose si complicano, e la vicenda vira rapidamente al drammatico, incamminandosi inesorabilmente verso un climax tragico. Fine dello spoiler: sarebbe un peccato capitale privarvi qui del gusto di scoprire lentamente i destini dei “parassiti” racchiusi nel film di Bong. Parassiti che, nella concezione del regista coreano, possono annidarsi sia nei bassifondi della città (i poveri a cui non resta che vivere sulla pelle dei ricchi) sia nell’alto dei quartieri bene (i ricchi che spadroneggiano su un sostrato di miseria e su un’umanità precaria). Ed è in questo rapporto simbiotico attraversato da un’incomunicabilità di fondo che Parasite scava, puntando il dito contro una società disumanizzante, in cui le relazioni sono fondamentalmente basate sulla funzione economica di cui ogni individuo si pretende sia portatore. Un terreno fertile per l’esplodere delle contraddizioni del sistema capitalistico e della lotta di classe, che però si risolve in una guerra tra poveri senza esclusione di colpi. Sì, perché qui le classi inferiori non mirano a distruggere il sistema, a colpire i padroni, ma aspirano, come profetizzato da Pasolini già negli anni Settanta, a sostituirsi ad essi. Così a subire le conseguenze della “scalata” dei Kim non sono loro, ma altri poveri in lotta per lo stesso tozzo di pane.

Ed è forse questa la vera tragedia messa in scena da Parasite: la definitiva fine della solidarietà tra classi subalterne, e dunque il de profundis della vecchia coscienza di classe. Ognuno fa per sé, senza preoccuparsi di chi è nella sua stessa condizione. Anche questa, dice il regista coreano, è una vittoria del capitalismo. Mors tua, vita mea, in altre parole: e l’arma con cui è possibile finire al tappeto, può anche essere il tasto invio di una chat Whatsapp (altra scena memorabile di questo film). I ricchi la pagano, certo, ma quasi per errore, perché hanno oltrepassato a loro volta troppe volte quella “linea” di divisione, hanno rinfacciato troppo spesso l’odore di povertà ai loro sottoposti. La rivoluzione, tuttavia, è altra cosa, e non è all’ordine del giorno.

Finita la proiezione del film, si ha voglia di parlarne. Ottimo segno.

– Hai visto quante lucciole stasera. Sono rare – dice lei, mentre c’incamminiamo all’uscita.

– Come no! – rispondo io, meditando già un paio di paragoni niente male: ho in mente il realismo senza fronzoli di Ladri di biciclette, ma anche l’ironia di Miseria e Nobiltà.

Brutti Sporchi e Cattivi – fa ad un tratto lei. Ci penso su un attimo: ci sta. A quelli di Hollywood, il neorealismo e la commedia all’italiana, son sempre piaciuti. E in questo film, d’italiano, c’è molto più di una canzone di Gianni Morandi. Tutta roba, però, andata irrimediabilmente perduta.

Curioso che un film coreano capace di indurre a riflessione sulla decadenza della società capitalistica, conduca fatalmente a considerare anche quella del nostro cinema. Ci penso su un attimo: e no, a pensarci bene, è tutt’altro che curioso.