L’occasione persa di Hollywood e Garrone


C’erano dei buoni motivi per assegnare la statuetta di Hollywood al film Io capitano. Innanzitutto quello di aver dato carne e sostanza ad una vicenda, nota ai più, solo dalla cronaca. Una vicenda qui da noi ipermediatizzata ed iperpoliticizzata (perlopiù a fini propagandistici), eppure raramente raccontata dal punto di vista dei protagonisti, i migranti. Di coloro cioè che vivono sulla propria pelle le ustioni e la disidratazione del deserto, gli abusi e le torture dei lager libici, il freddo e le intemperie del Mediterraneo, e sotto quella pelle, le paure, il dolore, ma anche i sogni di un viaggio della speranza che presto si rivela essere dell’incoscienza.
Quell’incoscienza, in fondo ingenua e umana, che nel film anima i sedicenni Seydou e Moussa, moderni Pinocchio e Lucignolo con la maglia del Barça e del Real, che di nascosto alle loro famiglie decidono di lasciare il Senegal per raggiungere il paese dei Balocchi molte miglia a nord, dove sognano di diventare cantanti ricchi e famosi. Due giovani poveri, ma in fondo spensierati, che come tanti loro coetanei un bel giorno scelgono di partire per cercare fortuna altrove. Nonostante le resistenze dei familiari e le testimonianze terribili dei migranti di ritorno, che mettono entrambi in guardia sui rischi del viaggio, e sul miraggio di un Eldorado dall’altra parte del mare, che non esiste.
Quell’Occidente, quell’Europa idealizzata dai giovani africani figli di un mondo globalizzato, che attraverso lo smartphone si mostra seducente in vetrina giorno e notte, e poi abbandona. Venduta dai trafficanti di uomini come un sogno a portata di mano, anzi di barcone, per poche centinaia di euro. Ma che per tantissime persone si rivela un inferno senza uscita: di morte, ma anche di schiavitù, come racconta la realtà tristemente nota di migliaia di migranti-schiavi bloccati per anni in Libia. Paese che più che essere di transito, diventa una trappola per la maggior parte dei migranti, ridotta a manodopera prigioniera e sfruttata. Dove anche il viaggio del sedicenne Seydou si arena, prima che i trafficanti lo scelgano per guidare una carretta del mare, proprio in virtù della sua giovane età che gli consentirà una volta arrivato in Italia di non essere perseguito come scafista. Quella figura criminale quasi mitologica che il governo (ecco un’altra buona ragione, tutta nostra, per premiare il film di Garrone) ha promesso di ricercare in tutto il globo terracqueo, e che in Io capitano si scopre essere un ragazzino che nemmeno sa nuotare, mandato all’avventura in alto mare con pochi rudimenti di nautica.
Trafficanti che guadagnano indisturbati milioni di euro sulla pelle delle nuove generazioni africane, senza che nessuno, tantomeno un governo interessato a far propaganda, intervenga per mettere un freno a questa tratta inumana, figlia anche di quel famoso memorandum Italia-Libia che dal 2017 contribuisce alla violazione dei diritti umani dei migranti.
Un calvario, che noi spettatori scopriamo attraverso gli occhi innocenti del protagonista costretto improvvisamente a diventare adulto (anzi, addirittura capitano), guidati dallo sguardo incantato di Garrone che ci accompagna in un racconto dove la cruda realtà si mescola al sogno: i sogni di Seydou, tanto simili ai dipinti di Chagall, dove si vedono donne volare leggere come aquiloni nel deserto. In un clima fiabesco che rivela la predilezione per l’elemento estetico del cinema garroniano, ma che forse appanna il valore testimoniale, e la denuncia civile e politica, del film. Definito non a caso “edulcorato” da chi ha realmente vissuto quella drammatica traversata. Ma anche, potremmo dire, parziale, in quanto limitato solo ad una parte della storia dei tanti Seydou d’Africa, che una volta giunti in Italia nella maggior parte dei casi finiscono a marcire nei Centri di permanenza per poi essere rimpatriati, oppure vanno ad ingrossare le fila di quell’esercito di lavoratori-schiavi che popolano le nostre terre.
Edulcorato, come sul tema del colonialismo occidentale, vecchio e nuovo, a cui si accenna appena nella scena dell’avvistamento da parte dei migranti di una piattaforma petrolifera offshore (una delle tante disseminate nel mare davanti alla costa libica). Sequenza ancora una volta visivamente spettacolare, ma che non va oltre l’allusione. Lasciando sullo sfondo la denuncia del nostro rapporto predatorio con l’Africa, e tralasciando completamente le responsabilità, sempre occidentali, sui traffici illegali di esseri umani e materie prime che passano nel Mediterraneo.
C’erano dei buoni motivi per premiare Io Capitano. Così come ce n’erano altrettanti per raccontare tutta la storia, chiudendo il cerchio di un film ispirato ad uno dei più terribili drammi contemporanei.
C’erano dei buoni motivi per andare fino in fondo insomma, sia per Hollywood che per Garrone. Non foss’altro perché la realtà è molto peggio della finzione.

Ancien Europa


Anno nuovo, Patto di stabilità vecchio. Così inizia un anno e al contempo si riapre una stagione che segnerà il ritorno di un vecchio cavallo di battaglia delle élite europee: l’austerità. Quella politica che per lungo tempo ha funzionato da grimaldello del neoliberismo in tutto il continente, e nel nostro paese ha imposto tagli drastici alla spesa pubblica e privatizzazioni selvagge sotto il peso schiacciante di vincoli di bilancio e di un mantra ossessivo che ripeteva ‘ce lo chiede l’Europa’.
Dopo la sospensione del Patto durante la pandemia, che aveva fatto credere in un ritorno del primato del pubblico sul mercato, si torna indietro. Con un piano che da qui al 2027 prevede piani nazionali di spesa nel cui solco i singoli stati dovranno concordare in ambito europeo l’uso dei fondi pubblici, e quelli più indebitati, come l’Italia, dovranno ridurre il loro debito di almeno un punto all’anno. Debito dal quale però verranno scorporate le spese militari, che potranno continuare a lievitare permettendo agli arsenali svuotati dalla guerra in Ucraina di tornare a riempirsi. Mentre i soldi per la scuola e la sanità pubblica, per il reddito di cittadinanza e le pensioni, o per il rinnovo dei contratti pubblici, continueranno a non esserci (da Bruxelles recentemente, solo per rendere l’idea, sono arrivate critiche persino ai fondi aggiuntivi stanziati alle aree colpite dalle inondazioni in Emilia Romagna).
Un patto di profonda iniquità, più che di stabilità. Dal quale dunque sarà possibile derogare se si tratterà di spendere in armamenti, ma non se si tratterà di costruire nuove strade, ospedali o scuole. In perfetta linea con l’economia di guerra inaugurata dall’UE ormai due anni fa. Una linea condivisa da tutte le principali forze politiche, senza particolari distinguo tra cosiddetti europeisti ed euroscettici, il cui tratto comune ormai evidente è la determinazione a trasferire risorse dalle spese sociali alle spese militari, e quindi dai più poveri ai più ricchi.
Anche qui in Italia: dove il gran chiasso inscenato attorno alla ratifica del Mes, appena un attimo dopo l’approvazione della riforma del Patto, è servito soltanto a confondere le acque e a coprire la sostanziale continuità in campo economico ed internazionale del governo pseudo-sovranista con quello precedente.
Una continuità che si traduce ancora e sempre in ubbidienza alle politiche euro-atlantiche e subalternità agli interessi del grande capitale. In altre parole, in politiche antipopolari e di guerra. Quelle che con l’approvazione del “nuovo” Patto nessuno in Europa pare interessato a cambiare. Quelle che questa Europa, al di là di chi la guiderà dopo le elezioni del prossimo giugno, ha già deciso chi dovrà continuare a pagare.

Sovranismo part-time


Negli stessi giorni in cui il governo italiano decideva di tenere alla larga dai confini nazionali i migranti, spedendoli con un accordo-spot in Albania, la rete storica della più importante società di telecomunicazioni del paese veniva ceduta, quasi in sordina, agli americani. Un’operazione finanziaria da circa venti miliardi di euro, realizzata col decisivo assenso del governo, che in qualche modo chiude un trentennio di privatizzazione e depredazione di quella che un tempo era un’azienda leader a livello europeo.
Così, a differenza proprio degli altri grandi paesi europei che tutelano il loro sistema di telecomunicazioni, e che mai si sognerebbero di cederne la proprietà ad una potenza straniera, l’Italia vende l’infrastruttura che fu di Telecom a un fondo americano (lo stesso peraltro che ha comprato Magneti Marelli chiudendone poi i stabilimenti), rinunciando al controllo di un importante asset strategico. Un settore delicato per la sicurezza nazionale, strettamente legato all’intelligenza connettiva del paese e ai dati sensibili di chi lo abita. Che ancora negli ultimi mesi, forse qualcuno lo ricorda, ha visto la cinese Huawei sotto accusa in Occidente proprio per questioni di sicurezza nazionale.

È la doppiezza dei sovranisti di casa nostra: inflessibili nella difesa del suolo patrio dai poveri cristi; generosi nelle concessioni al grande “alleato” d’oltreoceano. Ma anche, in verità, verso il piccolo alleato d’oltre Adriatico, dove a partire dalla prossima primavera i migranti soccorsi dalle navi italiane verranno deportati, pardon, “ridislocati” come dice il testo dell’accordo, in cambio di un cospicuo rimborso spese (tra cui lo sblocco delle pensioni maturate da circa mezzo milione di albanesi in Italia).
Dopo l’esternalizzazione dei call center, insomma, l’esternalizzazione dell’accoglienza. Come se dirottare all’estero le chiamate dell’assistenza clienti fosse lo stesso che dirottare navi cariche di persone. Un tentativo piuttosto palese ed estemporaneo di risolvere il problema migratorio lontano dai confini nazionali, inaugurando altri centri di detenzione all’estero quando dovremmo chiudere i nostri. Esternalizzando le procedure d’identificazione ed asilo con lo scopo di aggirare il principio di non-respingimento sancito dal diritto internazionale. Ma anche evidentemente contando d’incassare i dividendi elettorali alle prossime Europee, in programma proprio in primavera quando verranno inaugurati i due nuovi centri albanesi.

Ce n’è abbastanza per poter fare l’ennesima campagna elettorale tutta all’insegna del Padroni a casa nostra o del Aiutiamoli a casa loro.
E se la prossima implacabile telefonata promozionale dall’Albania viaggerà su cavi stranieri, chissenefrega! A limite, misureremo un po’ di più le parole col povero malcapitato operatore.
Attento italiano, l’alleato ti ascolta.

Déjà-vu di un mondo cieco


In questi giorni, avvertire un senso di déjà-vu davanti ai discorsi esasperati e bellicosi di politici, giornalisti ed esperti vari di casa nostra e del resto dell’Occidente è cosa assolutamente normale. Qualcuno, tra i più increduli, si sarà persino precipitato a controllare il calendario, constatando amaramente che a correre è l’anno del Signore 2023, e non 2001. Eppure la sensazione di essere stati risucchiati in un buco temporale, di essere ripiombati in quel clima d’imminente scontro di civiltà creatosi all’indomani degli attacchi dell’11 settembre, è forte.
Non foss’altro perché proprio quei politici, giornalisti ed esperti vari sopracitati, fin dal primo minuto successivo all’attacco di Hamas, hanno iniziato a parlare di ‘11 settembre d’Israele’, e non l’hanno smessa più.
Tutti ricordiamo quei giorni di paura e rancore. Quando l’amministrazione Usa, seguita dagli altri “governi amici” occidentali, decise di dichiarare guerra al terrorismo. Più precisamente, ad una organizzazione terroristica: Al-Qaida. E di conseguenza al paese che si presumeva desse asilo al suo capo: l’Afghanistan.
Tutti ricordiamo la chiamata alle armi dello Zio Sam che risuonò come un estremo appello al mondo libero in difesa della democrazia contro terrore e oscurantismo. Una resa dei conti finale contro il regno del male, che era stato capace d’infliggere un colpo durissimo alla più grande democrazia del mondo. Talmente duro, da andare ben al di là dell’immaginazione di qualsiasi cittadino di quella stessa democrazia. Convintasi col tempo, dall’alto della sua superiorità militare, di essere pressoché intoccabile.

Ventidue anni dopo esatti l’inizio dell’operazione Enduring freedom contro l’Afghanistan, ecco che siamo ancora qui. All’ennesimo redde rationem tra il bene e il male. Tra il mondo libero e la barbarie (come se il confine tra i due non si sia già abbondantemente confuso).
E di nuovo, avanza l’illusoria pretesa di sradicare la fonte del male (oggi, Hamas) in maniera chirurgica, senza produrre tutt’intorno un disastro umanitario e politico (ricordiamoci poi com’è andata a finire in Afghanistan). Bombardando un paese intero con la scusa di voler annientare i terroristi.
Di nuovo, siamo di fronte ad una grande potenza militare ferita ed assetata di vendetta, che come l’alleato americano si considerava inattaccabile. Una potenza celebrata in Occidente come “l’unica democrazia del Medioriente”, che tuttavia da decenni si ritiene autorizzata a spadroneggiare in lungo e in largo su una terra che non le appartiene. In totale spregio delle risoluzioni delle Nazioni Unite, e nel silenzio di quella comunità internazionale (leggasi Blocco occidentale) così impegnata a condannare l’aggressione russa degli ultimi mesi da non poter dedicare un minuto a quella degli ultimi settant’anni dello Stato d’IsraeIe.
Di nuovo poi, cala una coltre di paura e repressione sul cosiddetto mondo libero e civile, che fa male proprio a quella democrazia che si proclama in ogni dove di voler difendere.
Una coltre alimentata dalla spirale guerra-terrore che favorisce un clima da caccia alle streghe, per cui esiste solo un Noi e un Loro. Nessuna via di mezzo. E persino manifestare in piazza in solidarietà del popolo palestinese, di un popolo che a Gaza vive in una prigione a cielo aperto diventata oggi un mattatoio senza via d’uscita, può essere vietato perché considerato un atto di solidarietà con il terrorismo. Inammissibile in un quadro ormai polarizzato, dove regna una logica di guerra stringente che concepisce dialogo e diplomazia come segni di debolezza.

Se è a questo 11 settembre che si riferisce chi tiene le redini del potere e del discorso pubblico, allora siamo tutti d’accordo. Se è a quel mondo nuovo che scaturì dopo il crollo delle Torri, governato dalla legge dell’occhio per occhio, che guardiamo per capire l’oggi, allora concordiamo tutti, e non ci sarebbe altro da fare che cambiare rotta.
Ma temiamo che sbandierare quella data tragica oggi, servirà solo a porre le basi di un’altra tragedia.
Ancora un mondo incendiato dalla guerra e dalla ingiustizia. Ecco il nostro déjà-vu.

Piove, natura ladra!


“Non è la prima volta che il fiume invade le nostre case”, dice solenne Don Camillo davanti al paese allagato, in mezzo a un mare di fango liquido su cui galleggiano inginocchiatoi e confessionali. Siamo dentro la scena madre del secondo capitolo della celebre saga cinematografica. Tutt’intorno, la Bassa reggiana sommersa dalle acque del Grande Fiume nell’alluvione del ’51. Scene di finzione che si mescolano a riprese reali di un evento catastrofico così lontano nel tempo eppure tanto simile al presente.

Settant’anni dopo, ancora lo stesso incubo. Non è la prima volta ma l’ennesima nel giro di pochi mesi. Dopo Ischia, e prima ancora le Marche, è il turno dell’Emilia Romagna. Di nuovo la Bassa: questa volta, quella bolognese e romagnola. Centinaia di ettari di pianura finiscono sott’acqua. Paesi interi sommersi. Si sbriciolano argini, si allagano campi, si sgretolano ponti e le colline intorno. E poi morti, feriti, e sfollati a migliaia.
Piove tanto. Più di quanto abbia fatto due settimane prima. Acquazzoni di primavera. Copiosi, martellanti. Come in Riso amaro (ancora un classico del nostro cinema che ci viene in soccorso), dove le piogge torrenziali di maggio mettono a rischio il lavoro delle mondine.
No, non è la prima volta. C’è poco d’imprevedibile in tutto questo. Se dopo mesi senza una goccia d’acqua dal cielo, la pioggia si abbatte su distese di cemento sempre più grandi, su fiumi e torrenti lasciati all’incuria, o peggio ancora tombati, su colline d’argilla rese fragili dal disboscamento e dalla pressione umana, d’imponderabile c’è ben poco. Lo dice anche ‘la Scienza’, quella con la S maiuscola, quella che fino a ieri veniva usata come una clava dalla classe dirigente di questo paese contro ogni voce dissonante: se si fa scempio del territorio, prima o poi se ne pagano le conseguenze. Ma in questo caso: chi se ne frega della scienza! Allora via con colate di cemento continue su una delle aree del nostro paese più fragili dal punto di vista idrogeologico: l’Emilia-Romagna, terra in gran parte d’origine alluvionale, attraversata da decine di fiumi e torrenti, e da migliaia di chilometri di canali di scolo e d’irrigazione; la terza regione più cementificata d’Italia, con circa il 9% di suolo impermeabilizzato (2 punti in più della media italiana). Una terra che detiene il primato nazionale, tutt’altro che lusinghiero, per cementificazione in aree alluvionali, dove si continua a consumare suolo, e a costruire in aree protette o a forte rischio idrico e franoso.
Politiche territoriali che da queste parti hanno reso sempre più conflittuale il rapporto tra uomo ed elementi. Un rapporto diventato più difficile a causa dei cambiamenti del clima, ma prima ancora a causa del modello di sviluppo attuale che avvelena e deturpa il territorio, mettendone voracemente a valore ogni suo spazio residuo: dalle zone industriali sempre più estese ai grandi allevamenti di tipo intensivo, passando per i centri commerciali e le nuove strade ed autostrade (a cominciare dal cosiddetto Passante di Bologna che prevede un raddoppio di Tangenziale e A14 fino a 18 corsie).
Scelte che hanno un impatto enorme in termini di inquinamento, emissioni e consumo di suolo. E che sono in aperta contraddizione con la retorica ambientalista dominante. Quella che ora utilizza l’emergenza climatica quasi come un diversivo rispetto alle responsabilità e alle cause primarie del dissesto idrogeologico. Un discorso autoassolutorio che sostanzialmente mira a che tutto continui come prima, con le stesse pratiche e politiche di aggressione del territorio, deresponsabilizzando al contempo istituzioni (per le quali un’emergenza tira l’altra) e cittadini (che finiscono però col pagare il conto più salato). E chi non è d’accordo finisce presto nel calderone del negazionismo (così funziona da un po’ di tempo a questa parte). Come se la “straordinarietà” degli eventi atmosferici e il loro impatto sempre più distruttivo non fosse il portato di un modello insostenibile che ha depauperato il territorio, rendendolo più vulnerabile proprio ai cambiamenti del clima di cui tanto si parla. Come se la colpa non fosse la nostra, ma della natura, che si ribella all’uomo, al suo “progresso”. A quella che gli antichi greci chiamavano, sottolineandone la pericolosità, hybris, la tracotanza umana.

“Le acque escono tumultuose dal letto dei fiumi e tutto travolgono: ma un giorno esse ritorneranno, placate, nel loro alveo e ritornerà a splendere il sole”, dice ancora Don Camillo. E quel giorno, noi ritorneremo a fare esattamente tutto come prima.
Non è stata la prima volta, e purtroppo non sarà l’ultima.