Cara Europa, perché ci fai questo?

Terrorismo Rifugiati Erasmus


I fatti di questi ultimi giorni ci parlano di un’umanità, di volta in volta, negletta, disperata e intraprendente, composta perlopiù da giovani, che per motivi diversi tra loro, detta quotidianamente, spesso suo malgrado, l’agenda mediatica e di riflesso politica del Vecchio Continente. Giovani che da posizioni indubbiamente assai differenti pagano amaramente colpe di certo non loro.

Dalla Catalogna a Idomeni, passando per Bruxelles altissimo è stato, e continua ad essere, il tributo di sangue versato e sofferenze patite dalle giovani generazioni europee e non. In Spagna, la fatalità, oltre che un’oggettiva responsabilità umana, hanno giocato un ruolo determinante nella tragica morte di quindici ragazzi, autorevole rappresentanza di quella che da un paio di decenni a questa parte si è preso a chiamare “generazione Erasmus”. In una piccola città al confine tra Grecia e Macedonia, migliaia di famiglie, in cui bambini e adolescenti sono la stragrande maggioranza, in fuga dalle terre martoriate della Siria e dell’Iraq, sono costrette in condizioni a dir poco disumane, ormai da settimane. Nella capitale belga, invece esplodono bombe che cingono le vite di giovani kamikaze causando la morte di vittime civili innocenti. Anche queste, man mano che il quadro dei danni causati dalle due deflagrazioni avvenute alla stazione metropolitana di Maelbeek e all’Aeroporto di Bruxelles si ricompone, prevalentemente di giovane età. E, considerando i luoghi colpiti e l’orario delle esplosioni, non potrebbe essere altrimenti. Studenti, magari stagisti presso le istituzioni dell’Unione Europea, pendolari, viaggiatori. Ma soprattutto, uomini e donne delle provenienze più disparate. Si parla di oltre trenta nazionalità differenti.  Insomma, ancora una volta quella “generazione Erasmus” di cui sopra.

Sogni e speranze che si infrangono prematuramente sul guard rail di un’autostrada o davanti ad un muro d’indifferenza ed egoismo al confine tra due stati europei, a migliaia di chilometri di casa. Lontani dal tranquillo focolare domestico italiano così come dalle diroccate macerie fumanti della propria casa di Aleppo o Raqqa. Oppure incredibilmente vicino. Vicino al cuore pulsante di questa nostra stanca e sempre più frastornata Europa. Magari addirittura nella fermata della metro da cui si scende per la sede della Commissione dell’Unione europea. Nella città sede della Nato. Luoghi distanti tra loro, eppure legati tra loro da un sottile filo rosso.

Un filo rosso che ci parla di una nuova generazione europea affacciatasi speranzosa alla vita in questi primi decenni del XXI secolo, cresciuta a pane ed Europa, a cui è stato insegnato di viaggiare e credere nell’integrazione tra culture diverse. Che tra mille difficoltà ha deciso con coraggio di fare le valigie e partire. Ma che poi si è scontrata con una realtà che è frutto di almeno un ventennio di scelte politiche dissennate prese sulla pelle di un’umanità che ormai spinge disperata alle nostre frontiere. Scelte politiche che hanno il suono di un’unica triste e antica parola: guerra.

Ora ci viene detto che siamo in guerra. Ma la notizia sarebbe stata se ci avessero detto il contrario. Perché non è forse vero che siamo in guerra ormai già da due decenni? Afghanistan, Iraq, Libia, Siria con la loro interminabile scia di morte cosa sono altrimenti? Quotidiane stragi di civili, magari perpetrate tramite droni telecomandati a distanza, che ormai non fanno nemmeno più notizia. Una crisi umanitaria che i governi d’Occidente hanno inconfutabilmente contribuito a provocare attraverso un’opera di continua destabilizzazione dell’area mediorientale. A cominciare dall’annosa questione israelo-palestinese che rappresenta una ferita da troppo tempo aperta e che se non rimarginata continuerà ad alimentare ancora a lungo lo jihadismo armato. E, in questo contesto, di certo non aiuta affidarsi nell’enorme ondata migratoria in corso ad un personaggio come Erdogan che ufficialmente dice di voler combattere l’Isis ma che poi sottobanco mantiene rapporti tutt’altro che trasparenti con i miliziani del califfato, anche e soprattutto in funzione anti-kurda. Per non dire poi di quegli altri torbidi affari che mantengono legato, se non addirittura in scacco, l’Occidente al principale fomentatore e finanziatore del terrorismo islamico internazionale, l’Arabia Saudita.

Tutte tessere di un mosaico che, se da un lato riempiono con l’odio il vuoto ideale e culturale dei giovani jihadisti, dall’altro zavorrano, quando non spezzano, la voglia di futuro di quella generazione di ragazzi che si sforza di credere ancora nell’Europa. Per cui se vogliamo davvero bloccare la spirale guerra-terrore-guerra, se decidiamo di investire davvero su tutta questa gioventù, se non vogliamo, a forza di erigere muri e fili spinati, consegnare la guida dei paesi europei a formazioni politiche che hanno tutto l’interesse a farci continuare a vivere in un clima di paura e “caccia al diverso”, è ora di cambiare. E’ ora che la nostra società, e i nostri governanti in primis, la smetta una buona volta di organizzarsi così ostinatamente contro i giovani, rubando, tra una crisi finanziaria e l’ennesimo attentato, il futuro di un’intera generazione.

Senza un perché.

Effetto che fa Arancia Meccanica


Uccidere e non sapere perché. O meglio, uccidere perché non si ha altro di meglio da fare, per alleviare la noia. Seviziare la propria vittima per “gioco” per poi darle la morte. Una sorta di bovarismo spinto fino alle sue estreme conseguenze. Indifferenti alla sofferenza provocata e alla sacralità della vita violata, c’è in questo mondo chi è capace di spingersi a tanto.

Questo quanto avvenuto, giorni fa, in una notte di lupi in un tranquillo quartiere della Capitale. Giovani di buona famiglia, considerati da quanti li conoscevano, come spesso capita di sentire in questi casi, “bravi ragazzi”, che uccidono senza alcuna ragione a coltellate e martellate un loro “amico”. E solo il caso ha voluto che la loro vittima fosse quella. Prima, si dice, ventidue inviti respinti da altrettanti “amici” contattati tramite whatsapp. Una sorta di roulette russa del XXI secolo, insomma. Dopo, un delitto efferato che fa rabbrividire, tanto più che stando alle parole di uno dei responsabili, reo confesso, sarebbe avvenuto per scoprire “l’effetto che fa” uccidere un uomo. Come dire un omicidio gratuito dettato da quello che la legge con formula fredda e canonica definisce “futili motivi”. Roba da far tremare i polsi. Nessun mistero dunque, solo un concentrato di “ultra-violenza” in stile Arancia Meccanica.

E come nel capolavoro di Burgess portato sugli schermi da Stanley Kubrick, anche qui alcol e droga sarebbero stati i funesti ingredienti alla base della tragedia. Un cocktail micidiale capace talvolta di far emergere gli istinti più ferini e antisociali dell’uomo. Ma se è vero che queste sostanze fungono da agenti disinibitori, la questione cruciale è riflettere su quanto scorre realmente nel sottosuolo della nostra società. Potenti pulsioni distruttive o auto-distruttive sono continuamente all’opera in essa, e droghe e alcol spesso assolvendo al compito di riempire il vuoto morale ed esistenziale che affligge l’individuo rappresentano la miccia scatenante il dramma.

La tragedia avvenuta a Roma la dice lunga su quanto il valore della vita umana sia sceso ai suoi minimi storici nel mondo d’oggi. E non basta rifarsi alla classica formula della “banalità del male”, adoperata dalla Arendt contro i criminali nazisti, per riuscire davvero a comprendere le ragioni di tanta follia e crudeltà. Siamo oltre. Non c’è spersonalizzazione dei carnefici che tenga. Tutt’altro, se stiamo a quanto sopra detto sul potere detonante che stupefacenti e alcol possono avere sul nostro equilibrio psichico. In questa storia non ci sono superiori che impartiscono ordini e subordinati indefessi che li mettono in atto. Qui ci sono soltanto dei giovani, all’apparenza normali che però, tornando a Burgess, in realtà si scoprono folli e pericolosi come delle Clockwork Orange, ovvero degli esseri che pur sembrando in superficie normali nascondono internamente un’anima nera ed inquietante.

La magistratura, come si è soliti dire in questi casi, farà chiarezza ma l’impressione è che non basterà una sentenza, quantunque esemplare, a trovare una spiegazione all’orrore di questa triste storia. Davanti ad un vortice di violenza, tanto inaudito quanto insensato, alimentato da noia e frustrazione, occorrerebbe una profonda riflessione sullo stato di complessivo imbarbarimento delle relazioni umane e della società moderna che le incuba. Forse, più esatto sarebbe dire che siamo al cospetto di un inferno distopico in cui la vita del prossimo, a dispetto del gran parlare che si è fatto in questi ultimi giorni sul tema della tutela di una nuova vita (leggi: uteri in affitto), non ha in realtà più alcun valore. Una società in cui può capitare di essere brutalmente uccisi, non per sbaglio o in un contesto qualsiasi di conflitto, ma solo per “vedere l’effetto che fa”. Un “mondo nuovo” in cui, come prefigurato da Aldous Huxley, nella vita anonima delle grandi città “gli individui entrano in rapporto l’uno con l’altro non come personalità totali […] ma come cacciatori irresponsabili di divertimento”. Peccato che a volte, come stavolta, non ci sia davvero nulla da ridere.