È stata la fine della giovinezza


Grazie alle sue prodezze con un pallone tra i piedi sapevamo che milioni di persone in tutto il mondo hanno sognato. Sapevamo che una città intera è impazzita di gioia, finendo con elevarlo a dio. Ma non sapevamo ancora che qualcuno fosse riuscito addirittura a salvarsi dal proprio destino. Letteralmente scampare alla morte.

“È stata la mano di Dio”, dice zio Alfredo a Fabietto, appena visto il gol beffardo del Dieci argentino agli odiati inglesi. E Fabietto a quella mano che lo ha tenuto lontano dalla casa di Roccaraso, dove i genitori hanno trovato la morte, ci si aggrappa da subito, come fosse l’unica cosa in grado di strapparlo alla precarietà dei suoi sedici anni: agli amici che non ci sono, ai baci che non arrivano, agli amori che non nascono, o a quelli che lo fanno pur essendo proibiti (per una zia tanto attraente quanto fragile, per esempio). Ci si aggrappa, come tutto il resto della città di Napoli, sperando di essere salvato dalla realtà, che è “scadente”. Soprattutto per chi sente di non appartenervi, per chi è attraversato da un profondo senso di solitudine, e può solo limitarsi ad osservarla andando in giro con un paio di cuffiette sulla testa, sognando di fare un giorno il cinema.

Perché è questo che riesce a fare meglio Sorrentino, alias Fabietto, fin dalla adolescenza: contemplare la vita, mischiarla col sogno, e poi vedere l’effetto che fa. Una vita che mentre si sta lì ad osservarla, a vederla scorrere davanti ai propri occhi, da lontano, quasi da spettatore, senza chiedere il permesso stupisce e annichilisce: prima portando il calciatore più forte di sempre nella tua città, poi portandosi via in un sol colpo entrambi i tuoi genitori. Il settimo cielo subito seguito dall’abisso. La tragedia privata che entra in collisione con l’euforia collettiva. Che traccia un solco profondo tra te e il mondo, tra la vita di prima e quella di dopo. Tra la spensieratezza calda e luminosa degli anni passati, fatta di lunghi e chiassosi pranzi estivi di famiglia, indimenticabili gite in vespa in tre, e l’incertezza buia e fredda di quelli a venire, fatta di improbabili dialoghi esistenziali notturni, con un contrabbandiere scugnizzo nella piazzetta di Capri o con un regista disincantato davanti alla baia di Pozzuoli. Quel regista amante del conflitto che urlando l’interrogativo con cui ogni aspirante artista deve prima o poi fare i conti (A tien’ ‘na cosa ‘a raccuntà?) finalmente riesce a cavare dalla bocca e dal cuore di Fabietto, il macigno che il ragazzo porta con sé da quando le lancette della sua giovinezza si sono fermate.

Una giovinezza che porterà Fabietto a sbandare ancora per un po’, come gli avversari davanti alle finte del Dio del pallone: la verginità perduta con un’anziana baronessa, l’animo candido sporcato tra i vicoli stretti della città, l’allentarsi dei legami famigliari, in particolare con l’amato fratello, e infine la separazione da tutto e tutti. Un addio grazie al quale Fabietto riuscirà, nonostante l’esortazione dell’amico regista a non fuggire dal passato e dalle origini, a trovare il suo posto nel mondo. A trasformare il dolore in una vocazione. A “non disunirsi”, continuando ad inseguire il suo sogno di fare cinema. Un sogno che molti anni dopo, porterà Fabietto, ormai divenuto Paolo, a conquistare l’Oscar e a diventare uno dei registi italiani più apprezzati al mondo. E ora, con questo film intimo che parla al cuore, in cui si ride e soffre assieme ad un ragazzino, a sfiorare ancora una volta la vittoria nella notte di Hollywood. Dopo aver già vinto la sfida più importante: quella con il ricordo di una stagione lontana, fatta di perdita e redenzione, in cui un dio coi calzoncini apparve in città un attimo prima che finisse la giovinezza.