Era il 9 ottobre del 1967 quando un argentino di nemmeno quarant’anni, ribattezzato affettuosamente dai cubani Che, per via di quell’intercalare che tanto spesso usava nei suoi discorsi, veniva giustiziato in un piccolo villaggio di montagna boliviano. Da patriota latinoamericano, quale egli si sentiva, stava tentando di esportare il foco della rivoluzione in un altro paese dell’America Latina, dopo la liberazione dell’isola di Cuba da una dittatura appoggiata dagli americani. Catturato, e poi ucciso su pressione proprio di quest’ultimi, venne esposto su un tavolaccio come un cristo morto alla morbosità dei flash e del mondo. Un mondo che la notizia della sua morte sconvolse. E che poco dopo la sua lezione anticapitalista ed antimperialista, introiettata dal Sessantotto, travolse.
Da lì, il mito di quel giovane argentino che soffriva d’asma, che si era laureato in medicina per essere al servizio dei più bisognosi, che aveva scelto di partecipare alla rivoluzione di un popolo vicino, e che poi aveva rifiutato i privilegi del potere per continuare a diffondere la lotta rivoluzionaria e mettersi ancora una volta al servizio degli ultimi, divenne praticamente immortale. Un mito senza tempo, la cui forza stava non tanto nelle parole (di cui rimane comunque una straordinaria eredità), ma nell’esempio. L’esempio di chi seppe coniugare come pochi altri nella Storia, l’azione al pensiero, la ragione alla passione. E soprattutto di chi elesse l’uguaglianza ad ideale massimo, a metro della propria vita, e assieme, prefigurazione della propria morte. Morte che, per chi sceglie la strada della purezza rivoluzionaria, non può che divenire una compagna fedele dei propri giorni. Una compagna che nell’animo inquieto del Che condivise costantemente il posto con un’insofferenza esistenziale ed una coscienza morale che andavano ben oltre l’ideologia. Fino quasi a sfiorare, come ebbe a dire lo scrittore Paco Ignacio Taibo II, la santità. Una santità laica che nonostante la sconfitta (o forse proprio per questo) ha conquistato continenti e generazioni lontane e diverse.
Ciò che infatti ha reso Ernesto Guevara quel mito che ancora oggi è, probabilmente è stata la sua scelta eretica spinta fino alle estreme conseguenze. Quel suo spirito indipendente, estraneo a qualsiasi ortodossia, che sempre lo portò a pensare con la propria testa fino a far maturare in lui una critica irriducibile al potere. Un’indisponibilità al compromesso, morale prima ancora che politico, che lo spinse alla critica del socialismo sovietico e a divergere da quello cubano. Perché per il Che il fine ultimo della rivoluzione non era la conquista del potere, ma l’edificazione di una società nuova fondata su una morale rivoluzionaria. Una società che avrebbe dovuto mettere al centro l’uomo e la sua liberazione dall’alienazione. Altrimenti il comunismo non sarebbe stato altro che un metodo di ripartizione della ricchezza un po’ più equo.
Una società nuova, dunque. Ciò che Ernesto Guevara auspicava e forse scrutava in quella magnifica foto del 1960, stampata poi su milioni di bandiere e magliette. Libera dal bisogno, dallo sfruttamento, ma anche dalla paura. Paura che all’epoca del Che, in piena guerra fredda, significava sostanzialmente apocalisse nucleare. Come quella che si rischiò nel ’62 con la crisi dei missili di Cuba. La stessa che ora, ancora a causa di imperialismi contrapposti, si riaffaccia sul palcoscenico della Storia. La stessa di cui il rivoluzionario argentino vide le sconvolgenti conseguenze in un viaggio del ’59 in Giappone. “Per combattere meglio per la pace, bisogna guardare a Hiroshima”, furono le sue parole. Un santo forse no, ma un partigiano dell’umanità sempre dalla parte dei popoli, questo certamente sì.