Papeete Circus

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L’estate è iniziata, e con il suo arrivo terminano gran parte dei talk politici. Direte: finalmente! E invece no. Molti di essi escono dalla porta nella loro versione canonica per rientrare dalla finestra in quella estiva. Un cambio di colori in studio, un ombrellone o una palma nella grafica, un conduttore semi-sconosciuto, costretto a fare la gavetta nei mesi meno televisivi dell’anno, e il gioco è fatto. Poi il resto ce lo mettono sempre loro: i nani e le ballerine del circo politico italico. Venghino signori, venghino…qui non si chiude mai! Abbiamo acrobati della polemica, giocolieri del politichese, mangiafuoco e mangiaciliegia. Un tendone stabile aperto giorno e notte (già, ci sono le repliche notturne!).

Ma ad un certo punto anche il miglior circo del mondo, stanca. E in tutto questo bailamme la politica, non dico quella con la P maiuscola, sconosciuta ormai a generazioni d’italiani, ma perlomeno quella che conserva un minimo d’aderenza al paese reale, latita paurosamente. Una latitanza che si accompagna ad una svalutazione cominciata negli anni Ottanta, aggravatasi con Tangentopoli, e mai più arrestatasi. Tanto che ci sarebbe da chiedersi se arriverà prima o poi il giorno in cui qualcuno si accorgerà che tutte queste “contrattazioni” tossiche hanno già portato la nostra politica ad una ormai quasi irreversibile sospensione per eccesso di ribasso: sono anni che l’indice di fiducia nei partiti politici si attesta in una forchetta tra il 5-10%. Ma nessuno sembra dolersene più di tanto: si finge di rimpiangere le vecchie tribune politiche, la loro compostezza e la presenza discreta dei politici nei palinsesti televisivi di una volta, ma poi fanno tutti a gara di ospitate e a chi abbaia più forte. O a chi ha scambiato la politica, arte del possibile, si diceva un tempo, in commedia dell’arte (con accenti macchiettistici dalle parti di Napoli).

La nostalgia per le tribune politiche, che chi scrive ammette per primo di provare, tuttavia, ha a che fare, prima ancora che con la politica d’oggi, col nostro modo di relazionarci al prossimo. Viviamo un’epoca in cui tutti sentono il bisogno di esprimersi continuamente su qualsiasi argomento, il più delle volte, sovrastando le opinioni altrui: l’incessante blaterare di questi ultimi mesi di emergenza sanitaria, a cui nemmeno uomini di scienza hanno saputo sottrarsi, per esempio, ne costituisce una prova evidente. Siamo tutti vittime di una frenesia narcisistica in cui le parole, dai social ai talk, generano ormai soltanto un rumore indistinto. L’altro, il suo pensiero, sono solo un ostacolo all’esibizione del nostro ego, da superare alzando i decibel. Sembra che se la nostra voce non s’alteri, o le nostre parole non siano digitate in maiuscolo, le nostre opinioni contino meno. Da qui, il diffondersi a tutti i livelli di una comunicazione aggressiva la cui conseguenza, tra le tante, è un profondo senso di nausea e sfiducia verso istituzioni politiche e sociali.

Proprio in questi giorni, le immagini di un parlamentare portato di peso fuori dalla Camera, dopo aver preso a male parole una collega, hanno fatto il giro di tutti i media. Ma lo scalpore è durato il tempo di un servizio del Tg. Ora quel parlamentare, aduso a dare della capra a tutti quelli che gli capitano a tiro, è già lì in qualche salottino televisivo fresco di restyling estivo, a sommergere il malcapitato di turno d’improperi.

Un’altra calda stagione di politica “papeetara”, sbracata e deleteria, accompagnata dalla debita copertura mediatica, si annuncia davanti a noi. Nani, ballerine, e soprattutto un’allegra brigata di pagliacci in giacca e cravatta sono pronti a spernacchiarsi e tirarsi torte in faccia. Ma i pagliacci, in fondo in fondo, lo sanno tutti, sono tristi.