Le Svolte (a U) dell’89

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Dall’uscita della stazione di Bologna di Via de’ Caracci, imboccando quel viale alberato stretto e lungo che è Via Di Vincenzo, in cinque minuti di cammino si è in Via Tibaldi. Al 17 di Via Tibaldi. Qui, trent’anni fa, la Storia arrivò come un treno a travolgere le certezze e i sogni di una comunità di uomini e donne unita sotto le insegne del più grande partito comunista d’Occidente. Oggi, là dove c’era una volta la sezione Bolognina del PCI, un salone di bellezza cinese ammalia i passanti invitandoli ad entrare con il suo aperto lampeggiante. Comunisti di ieri, comunisti di oggi. Quella domenica d’autunno di trent’anni fa però, di fronte ad una platea di ex-partigiani, di veri comunisti insomma, il Segretario annunciò che era tempo di percorrere strade nuove, e tra queste nessuna prometteva di vedere il sol dell’avvenire, di più, nessuna includeva la possibilità di continuare a chiamarsi comunisti. Quel “lasciano presagire tutto” pronunciato a margine del suo intervento da Occhetto in risposta a chi gli chiedeva se le sue parole avessero aperto la questione del cambio del nome fu il primo atto della Svolta, la svolta della Bolognina, appunto. Uno scatto della Storia, in avanti per alcuni, all’indietro per altri, senza dubbio improvviso e spiazzante per tutti, che condusse poco più di un anno dopo allo scioglimento “non-consensuale” del PCI. Una svolta quella occhettiana giustificata dal crollo del sistema inaugurato a Yalta ma che mandò al macero un’esperienza politica decennale fondata sulla diversità del comunismo italiano dal socialismo reale di tipo sovietico. Diversità, in primis, caratterizzata dal rifiuto della dittatura. Un crollo che lasciò sotto le macerie la stessa sinistra, incapace da quel momento di produrre non solo visioni alternative alla versione autoritaria del comunismo ma anche al modello neoliberista che già andava imponendo nuove forme di sfruttamento ed esclusione. Alla sinistra, il nuovo ordine aveva assegnato il ruolo di garante di una transizione ordinata, ed essa quasi al completo rispose obbedisco!

Solo tre giorni prima però il treno del cambiamento aveva preso a correre veloce già altrove. È il pomeriggio del 9 novembre, durante una conferenza stampa il ministro della Propaganda della Repubblica Democratica Tedesca, Schabowski, evidentemente con la testa ancora alle vacanze da dove era appena ritornato, annuncia incautamente e inaspettatamente che il Politburo ha deciso che i berlinesi dell’Est avrebbero potuto attraversare il confine con appropriato permesso. E a chi gli domanda da quando la disposizione sarebbe diventata esecutiva, con aria da studente colto impreparato risponde a mezza bocca: “a quanto ne so, subito, da ora”. Nel giro di poche ore per le strade di Berlino si riversano migliaia di persone prima incredule poi festanti. Gli agenti di frontiera della DDR non hanno istruzioni precise e comunque non saprebbero come affrontare una simile onda umana: è la fine del muro, l’inizio de la Wende, la svolta tedesca, che nel giro di un anno porterà alla riunificazione delle due Germanie. La conclusione di un incubo che era durato quasi un trentennio e che era costato ai berlinesi paure, privazioni e morte: dall’agosto del ’61 al 1989 le vittime del muro furono oltre duecento. Quello che per la propaganda della DDR sarebbe dovuto essere un “muro di protezione antifascista”, per tutto il corso della Guerra Fredda rappresentò il simbolo tangibile di un’intollerabile tirannia. Esaurita la sbornia dei festeggiamenti per la ritrovata libertà, però, chi coltivava la speranza di una democratizzazione del socialismo tedesco-orientale dovette subito ricredersi. Prima che i cittadini della Germania dell’Est potessero riprendere in mano le redini del loro futuro, infatti, l’economia di mercato, un altro sistema imposto dall’esterno, tornò a condizionarne le vite. Fu subito chiaro che la nuova Germania non sarebbe stata il frutto di una riunificazione ma il risultato di un’annessione dei vinti da parte dei vincitori. Il passaggio dall’economia di stato alla “società del rischio” significò per i cittadini dei nuovi Lander orientali la perdita secca dell’80% dei posti di lavoro e l’occupazione sistematica delle posizioni lavorative più prestigiose, in ambito amministrativo, giudiziario ed accademico, da parte di cittadini dell’Ovest. Una progressiva colonizzazione che malgrado il sopravvivere di una mentalità anticapitalista e comunarda a Berlino, ha finito per far attecchire negli ex-territori della DDR partiti d’ultradestra d’ispirazione neonazista, come Alternative für Deutschland, che proprio su questo vittimismo nazionalista stanno costruendo le loro fortune. Fantasmi del passato talmente presenti e preoccupanti da spingere una grande città dell’ex-Germania Est come Dresda a proclamare l’ “emergenza nazista”. 

Trent’anni fa dunque, in questi stessi giorni, la Storia iniziò a svoltare. Il cambiamento prese le mosse da una manciata di parole inattese, da un incidente verbale, per certi versi, da un equivoco. Annunci che colsero di sorpresa le masse, impreparate a così epocali mutamenti e perciò stesso sommamente felici o preoccupate di abbracciare il cambiamento. Sentimenti contrastanti di un’umanità che allora promise “mai più muri” ma che oggi è tornata a presidiare sospettosa le frontiere e a negare la libertà di movimento agli uomini. Sentimenti contrastanti come quelli che si provano davanti alle vetrine tappezzate di acconciature post-moderne e a buon mercato di un salone di bellezza cinese al centro di Bologna.