Adesso che siamo a Milano, vogliamo andare a vedere questo famoso…EXPO?

Expo Milano


La metropolitana man mano che ci si avvicina al capolinea di Rho s’infittisce di mani, braccia e teste. Un coacervo umano e di vite che s’incrociano sulla strada per l’Expo. Una vera manna per borseggiatori o per chi ha intenzioni ben peggiori. Da Duomo a Rho è un attimo. Un attimo in cui puoi apprezzare tutta l’efficienza meneghina.

Ci siamo! I vagoni della metropolitana si svuotano riversando sulla banchina centinaia di persone. Risaliti in superficie, è subito Expo. L’ingresso Fiorenza è lì a pochi passi. Un nuovo fiume umano scorre frenetico davanti ai nostri occhi. Ordinatamente in fila ognuno aspetta il momento in cui il metal-detector sentenzierà sul proprio destino. Passeremo subito o l’orologio d’acciaio, il ciondolo d’oro, oppure i nostri pochi spiccioli, ci tireranno un colpo basso prolungando la nostra attesa prima d’entrare nel cuore della grande Esposizione? E’ fatta! Gli addetti al controllo ci accolgono con un sorriso, il nostro biglietto viene passato al laser. Tutto ok, siamo dentro l’Expo. Beh, non proprio. C’è da percorre quasi un chilometro prima di raggiungere il Padiglione Zero, ovvero il primo padiglione dell’Esposizione.

Comincia a piovere ma lungo il percorso coperto che divide l’ingresso Fiorenza al Padiglione Zero non c’è da temere la pioggia. Ovunque ti giri, i più diversi volti. Diversi per cultura, lingua, razza ed età. Ragazzi dello Staff Expo, con espressione già infiacchita di primo mattino, di certo a causa dei turni massacranti cui sono soggetti, provano a farsi sentire in mezzo al brusio di centinaia e centinaia di persone. Propongono il Passaporto dell’Expo: un libretto simile ad un vero passaporto su cui collezionare i timbri dei vari padiglioni. Simpatica idea ma di passaporti, di questi tempi, è meglio non parlarne. L’Ungheria, Schengen, sono vicine. Tiriamo dritto.

Il Padiglione Zero ci annuncia che stavolta siamo davvero arrivati. Fine del percorso coperto. La pioggia che cade sempre più copiosa dal cielo plumbeo di Milano, si merita le imprecazioni della folla di visitatori accorsi in questa domenica di settembre all’Expo. Piccola deviazione laterale e si è sull’oramai noto Decumano. Ti aspetti di trovare subito sulla tua strada qualche camouflage, ovvero uno di quei “camuffamenti”, per nascondere i ritardi dei lavori di costruzione, di cui si è tanto parlato nelle settimane che hanno preceduto l’inaugurazione dell’Esposizione, ma fortunatamente non ne vedi l’ombra. Poi pensi: diamine! Ci mancherebbe anche che ce ne fossero ancora in giro a poco più di un mese dalla fine della kermesse.

Manca poco alle dieci, e a quest’ora, complice la pioggia e l’indecisione dei visitatori appena arrivati, sul da farsi, la maggior parte dei padiglioni presenta ancora code umanamente sostenibili. Entrando distrattamente nel Padiglione Nepal, causa la struttura a forma di pagoda, finisci per confonderlo con quello cinese, ma le statue sacre simili a quelle indiane, ti riportano sulla strada giusta. Ritorna in mente addirittura la notizia di qualche mese fa, dello scorso aprile per la precisione, quando si era fatto un gran parlare degli operai nepalesi, impegnati nella costruzione di quel padiglione, costretti a ritornare nel loro Paese a causa del violento terremoto che lo aveva colpito.

Il padiglione irlandese se la prende comoda. E’ ancora chiuso. Pensi: chissà cosa avranno combinato ieri notte quegli irlandesi lì!? Quello belga mette in mostra le sue eccellenze: cioccolato, birra e diamanti. Padiglione opulento, quello belga. Una delizia, tuttavia, per i sensi. Fuori, i tendoni del Decumano non fanno fino in fondo il loro dovere. La pioggia colpisce duramente anche lì e la temperatura precipita. Così, un po’ per curiosità e un po’ per trovare riparo, entri in tutti i padiglioni minori, perlopiù africani ed asiatici, collocati prevalentemente nei cluster tematici del riso, del cacao, del caffè, dei legumi e delle spezie. E allora, in successione, entri ed esci dai padiglioni della Cambogia, del Camerun, dell’Afghanistan, della Guinea, quello delle Isole Vanuatu e del Sudan. Qui incautamente ti lasci tentare dal caffè arabo offerto ad un euro e mezzo. Un sorso e rimpiangi subito il vecchio e caro espresso italiano. Ma sai com’è, conoscendo i prezzi di questo Expo, è facile lasciarsi tentare dal primo prodotto venduto a buon mercato.

Nel cluster dedicato al caffè rimani in raccoglimento qualche istante di fronte alle magnifiche foto di Sebastiao Salgado che, attraverso i volti e i corpi dei lavoratori delle piantagioni di caffè, narrano la storia di tante piccole comunità sparse per il mondo. Uomini e donne che insieme formano una moltitudine di 125 milioni di persone legate a vario livello alla lavorazione e al commercio del caffè. E poi, ancora: Guinea, Ghana, Costa D’Avorio, e c’è persino la Repubblica del Kirghizistan con la sua “inconfondibile” bandiera nazionale dallo sfondo rosso sormontato da una specie di pallone giallo che sembra essere proprio quello dei “campioni della pallavolo” Mila & Shiro. Sarà lui poi? L’orologio gira! Bisogna andare, ma ti resta il dubbio.

E’ ormai ora di pranzo, il tempo sembra volgere finalmente al bello. Un odore di barbecue si spande inaspettatamente lungo tutto il Decumano. Sulla mappa ricevuta all’ingresso noti, la presenza del Padiglione McDonald’s. E allora fatalmente mediti sul fatto che mangiare carne, con la voracità dei Paesi sviluppati, oltre che contrario a qualsiasi principio di buona alimentazione, è anche tutt’altro che sostenibile. Con i cereali che si utilizzano per foraggiare gli animali da macello si potrebbero sfamare milioni di persone. Oggi, infatti, si nutrono quattro miliardi di animali per dare cibo a un miliardo di persone sovralimentate. Ciò innesca un sistema paradossale per cui nel mondo attuale a fianco di chi continua a morire per scarsità di cibo c’è chi muore per troppo cibo. E, il vero dramma, è che i paesi in via di sviluppo stanno seguendo le nostre stesse orme in fatto di abitudini alimentari. Con questi pensieri che ti rimbalzano nella testa, ti godi seduto in un padiglione anonimo, convertito per l’occasione in mensa provvisoria dai visitatori, il tuo pranzo a sacco.

All’uscita, adocchi il padiglione francese che presenta una coda all’ingresso stranamente non proibitiva. Procedi a rilento attraverso il percorso che conduce al vero e proprio ingresso del padiglione mentre ammiri le varietà di coltivazioni che caratterizzano le diverse regioni del Paese della Marsigliese. All’interno non puoi fare a meno di stare con il naso all’insù tanti sono gli oggetti appesi al soffitto: pentole, pane, pesci, barattoli ed ogni altra sorta di cosa collegata al tema dell’alimentazione, o forse, sarebbe meglio dire, della cousine. Da un maxi-schermo, collocato all’interno, ti intrattieni nella visione di un bel documentario animato che spiega con parole semplici le criticità collegate al tema dell’alimentazione nel mondo d’oggi. Insomma, un bell’esempio di divulgazione e sensibilizzazione quello proposto dai nostri cugini francesi.

Il tempo è tiranno! Così, proprio per questa ragione, arrivati al Padiglione Italia ti rassegni subito all’idea che non lo visiterai mai. Una coda di almeno due ore che scoraggerebbe anche il più patriota dei visitatori. Intanto, centinaia di smartphone sotto l’Albero della Vita sono a caccia della foto ricordo. A guardarli bene, alcuni visitatori sembrerebbero essere venuti fin qui solo per fare quello. Ma, tant’è! La nostra è un’epoca in cui basta poco per sentirsi dei fotografi provetti. E poi, vieni fin qui, e non dai fondo a tutta la batteria del tuo smartphone a furia di fare foto!? E se non le pubblichi su Facebook poi! Qualcuno un giorno potrebbe persino dubitare che tu ci sia mai stato all’Expo.

Un’altra occhiata alla mappa, e via a caccia dell’ultimo padiglione accessibile. Toh, c’è quello russo! Si può fare! Maestoso e popolato esclusivamente da personale russo doc, trasuda di quella grandeur che avresti pensato di trovare altrove ma che, alla fine, lascia spesso delusi. Ed è così anche in questo caso. Dal bel terrazzo del Padiglione Russia, tuttavia, puoi goderti il paesaggio per metà grigio e per metà multicolore di Milano e della sua grande Esposizione prendendo così congedo da Expo.

Tornando sui tuoi passi, tiri le somme. La visita è stata bella e stimolante, d’accordo. Ma ti chiedi: tutto questo ha meritato l’attenzione politico-mediatica e il dispendio di risorse [i lavori dell’Expo sono costati circa un miliardo di euro, ndr] che gli è stato riservato? Questa grande kermesse è davvero capace di cambiare le menti? E’ in grado di sensibilizzare la gente, che accorre qui in gran numero ogni giorno, verso gli eccessi del consumismo? Se il destino dell’umanità è legato ad un consumo minore di cibo e ad un suo conseguente minore spreco, oltre che ad un consumo più responsabile e sostenibile, contraddistinto cioè da una più netta scelta vegetariana, allora, si può certamente dire, che questo Expo non è all’altezza della sua fama. Tutto interessante, va bene. E sicuramente anche molto remunerativo, per qualcuno. Ma per favore, finita la fiera, facciamo almeno in modo che resti davvero qualcosa di questo grande e costoso evento, non solo l’inutile effetto “cattedrale nel deserto”, nel paesaggio di Milano così come nelle coscienze di ognuno di noi.

Migranti annegati e scalciati: la potenza delle immagini mette lo sgambetto ai populismi.

Aylan Laszlo Migranti


L’epopea dei migranti in fuga da quella che, in un’unica parola, può essere “semplicemente” definita la morte, negli ultimi giorni, si è imposta prepotentemente al centro del racconto mediatico internazionale. Le traversie e le sofferenze patite da quest’umanità povera e disperata hanno letteralmente “bucato lo schermo”, dimostrando la potenza che talvolta possono avere le immagini nello scuotere le coscienze dei cittadini e nell’accelerare le decisioni dei governanti. In tal senso, va preso atto dell’ormai indiscussa supremazia della cosiddetta “società dell’immagine”, intesa come rappresentazione simbolico-visiva della realtà, su quella che fa esclusivamente uso della parola, sia essa proposta in forma scritta o parlata. L’opinione pubblica e l‘establishment politico europeo, prima di vedere le immagini del piccolo corpo esanime di Aylan sulla spiaggia di Bodrum, sembravano non credere a quanto stesse accadendo ai confini del Vecchio Continente. Un po’ come avvenne, visto che i paragoni con il passato si sono in questi giorni sprecati, durante la Seconda Guerra Mondiale, quando, alla storia della Soluzione Finale, in pochi erano disposti a credervi, se non fino al momento in cui, liberati i principali campi di concentramento nazisti, la realtà dei fatti emerse con tutta la sua atrocità nelle immagini dei corpi accatastati e dei forni crematori.

Corsi e ricorsi storici che trovano ulteriore forza nelle immagini dei vagoni treno zeppi di umanità dolente, che ad onor del vero rispetto ai deportati della Seconda Guerra Mondiale, fa appunto di tutto per montare su quei vagoni, in vista di un approdo più sicuro. Stesso discorso può esser fatto per le immagini diffuse in questi giorni di donne e bambini “marchiati” con un pennarello, per fini fondamentalmente organizzativi, dalla polizia ceca. Tutto ciò può apparire come un déjà vu, ma nella sostanza altro non è che il frutto di una sorta di ubriacatura retorica, che allontana l’opinione pubblica dalla realtà e i governanti dalle proprie tragiche responsabilità. Piuttosto, quelle immagini e il loro potere evocativo hanno certificato, nel momento stesso in cui venivano divulgate, la sconfitta del paradigma dell’ “Europa fortezza. L’avanzata dei migranti lungo i binari che collegano i territori dell’Europa orientale all’Austria e alla Germania ha d’altra parte assunto un significato quasi biblico, ricordando il lungo peregrinare del popolo ebraico verso la Terra Promessa.

Ciò che non ammette in alcun modo replica e che trascende qualsiasi suggestione retorica sono invece state le strazianti immagini del già ricordato bimbo curdo-siriano Aylan e quelle, per altro verso mostruose, della “giornalista” freelance ungherese Petra Laszlo, filmata mentre era intenta nello sgambettare e scalciare padri e bambini impauriti che, per quanto lei stessa ne potesse sapere, erano del tutto innocenti. Si è detto che le immagini di Aylan hanno segnato un’inversione di tendenza nella percezione del fenomeno migratorio. Di morti annegati fino a quel momento se ne erano già visti tanti ma le foto che ritraevano il piccolo curdo-siriano riverso sul bagnasciuga lambito dalla schiuma delle onde del mare sono state un’altra cosa. Davanti ad esse, perfino i più biechi populisti hanno dovuto tacere e ritrattare, almeno in parte, le loro xenofobe certezze. Le istituzioni e i governi europei sono state inchiodate alle loro responsabilità e si sono trovate costrette a guardare in faccia alla realtà. La Germania, in primis, ha indicato, si spera, non solo sull’onda dell’emozione, la strada da seguire, divenendo capofila del nuovo corso europeo nei confronti dei profughi, e restituendo così un’immagine finalmente positiva delle istituzioni comunitarie di fronte al mondo che guardava con ansia al dramma dei migranti. Chiamatelo “senso di colpa” o visione strategica del futuro, resta il fatto che la Germania della Merkel, fino a prova contraria, è riuscita per il momento nell’impresa di sbrogliare una matassa che sembrava non potesse essere risolta, sgonfiando, peraltro, intolleranze e odio sociale che rischiavano di contagiare intere popolazioni, magari aizzate dai loro stessi governi.

L’auspicio è che ora la politica della Germania sia d’esempio per tutti gli altri governi europei e per una parte ancora cospicua della politica e dell’opinione pubblica che della storia tedesca forse tende a ricordare più facilmente altre stagioni. Più dei vagoni stipati di esseri umani e della numerazione dei migranti “marchiati” con i pennarelli, sono infatti le parole intrise d’odio di alcuni leaders xenofobi e i “placcaggi” della “giornalista” ungherese a ricordare discorsi e fatti di un passato tristemente noto. In fondo, a pensarci bene, c’è quasi da esser sollevati che il piccolo Aylan non abbia conosciuto la crudeltà, degna del peggior Kapo, della Laszlo, o i selvaggi improperi del fronte anti-immigrati, volando in cielo cullato dalle onde un po’ materne e un po’ matrigne del Mediterraneo. Quando l’emozione passerà, e delle frasi di circostanza, che ripetono ad ogni nuova tragedia un sempre più vuoto “mai più!”, non si udrà che una lontana eco, le azioni di noi europei si misureranno in termini di coraggio e paura. Il coraggio di aver salvato migliaia e migliaia di vite umane, magari nate nel mezzo di una guerra che non potevano capire e che di certo non era loro, e la paura di vivere nel rimorso di essersi tirati indietro, davanti al bene che si sarebbe potuto fare e che non si è fatto.


L’estate horribilis della Capitale. Roma sta morendo ma per fortuna c’è San Pallone.

Roma Mafia Capitale


Mai come in questa calda estate 2015, Roma, la capitale d’Italia, è affondata nelle polemiche, prima ancora che nel degrado e nelle inchieste della magistratura. Tra le immagini che ritraevano i più bei angoli della Città Eterna immersi nell’immondizia, lo stato di degrado e abbandono del sistema di trasporti cittadino, il funerale scandalo del cosiddetto “Re di Roma” Vittorio Casamonica e i nuovi inquietanti sviluppi dell’inchiesta Mafia Capitale, Roma e con essa i romani stanno vivendo un’estate di passione e di vera e propria ordinaria follia. Sembra che al peggio non ci sia fine. E allora verrebbe da dire: Roma Capoccia! Ma proprio nel senso opposto a quello dipinto nello straordinario brano di Antonello Venditti, insuperato tributo d’amore alla magnificenza della Città Eterna. Oppure forse sarebbe meglio dire, prendendo a prestito le parole di un altro grande cantautore come Pino Daniele, nato qualche chilometro più a sud della Capitale: “Roma è ‘na carta sporca e nisciuno se ne importa”.

Sul Comune capitolino infatti aleggia cupo, ormai da alcuni mesi, lo spettro di un possibile scioglimento per mafia. Ad oggi però il Consiglio dei Ministri ha stabilito soltanto il commissariamento del X Municipio, quello del litorale, ma non del Campidoglio. Si spera, e chiunque ha a cuore le sorti ed il buon nome della Capitale dovrebbe farlo, che la china si arresti qui. Per ora quello che è dato sapere dalle carte dell’inchiesta è che l’organizzazione criminale nota come Mafia Capitale, sistema verosimilmente mafioso, fondato sulla commistione tra politici corrotti, imprenditori disonesti e criminalità organizzata, cresciuta negli anni come una sorta di serpe in seno alle istituzioni pubbliche, ha gravemente infettato la politica e l’economia della Capitale. Il fatto stesso però che sulla città tutta penda un maxi-processo che aspetta di essere celebrato resta un’onta e un motivo di angoscia sia per l’amministrazione comunale che per i cittadini romani.

In tal senso, poco servono, se non ad esasperare ulteriormente gli animi, iniziative come quella indetta nei giorni scorsi dal PD romano in occasione del 33esimo anniversario dell’assassinio del Generale Dalla Chiesa, contro la mafia. Essendo peraltro lo stesso PD locale coinvolto nell’inchiesta, iniziative di questo tipo generano, come infatti si è visto, l’effetto della benzina sul fuoco. Il paragone poi utilizzato da un sempre più avulso Marino con la lotta al fascismo e al nazismo è risultato a molti ancora più straniante e incomprensibile. La buonafede e la levatura morale e politica del sindaco-dottore non sono affatto messe in discussione ma la sua estraneità al contesto romano si rimarca ogni giorno di più. Non è quindi un caso che il governo abbia deciso di attribuire nuovi e più ampi poteri al Prefetto Gabrielli in vista del Giubileo, e che, soprattutto, abbia deciso di farlo in coincidenza di questo momento di grave impasse dell’amministrazione comunale a guida Marino. E allora per il momento si salva il salvabile e ci si arrangia tra mille difficoltà. Andare ad elezioni anticipate sarebbe ora per il PD un vero e proprio suicidio. Il M5S già si frega le mani.

Intanto i romani, in specie quelli di fede romanista, distratti dalla palombella di Miralem Pjanić e dall’incornata di Edin Džeko, con cui la Roma è stata capace di piegare i nemici di sempre bianconeri, si godono la pausa di campionato ed assistono un po’ nauseati e un po’ annoiati alla cagnara che sta mettendo a soqquadro il Campidoglio. L’impotenza della politica e la convinzione che già serpeggiava da anni sulla sua totale inutilità erano per molti già un dato acquisito. Gli scandali e la melma in cui ora si dibatte l’Urbe sono, se possibile, ancora peggio. E allora per tanti romani non rimane che accomunare politici, mafiosi e juventini in un unico grande calderone e aspettare la prossima partita della Maggica. Sfogliando distrattamente il giornale che riporta le ultime notizie di scandali e ruberie, tra il popolo, avvezzo a cotanta monnezza, si propaga alla velocità della luce un solo pensiero: hai visto mai che questo è l’anno buono per tornare a vincere lo scudetto?

Il mostro è ancora in città! Nonostante le maledizioni della gente. E si vede e si sente.

Taranto Ilva Tamburi


Sono le due del pomeriggio di un’assolata giornata di fine agosto. Il “presepio” di Grottaglie è ormai alle spalle. Pochi chilometri lungo la SS7 Appia e il paesaggio inizia progressivamente a mutare. Le case imbiancate, il panorama agreste, l’aria tersa e leggera lasciano il posto ad uno scenario via via sempre più spettrale e greve.

Tra una “complanare” ed un “inversione di marcia” la tentazione di tornare indietro alle spiagge finissime del Salento, al giallo antico del centro storico di Lecce o ai sassi e al bianco di Alberobello, è forte. Eppure, laggiù c’è di nuovo il mare. Sulla sinistra all’orizzonte fa capolino il primo seno del Mare Piccolo di Taranto ma neanche il tempo di apprezzarne la linea sinuosa che lo sguardo viene brutalmente catturato dall’ombra nera che si erge come un mostro mitologico in lontananza sulla destra. Le fauci di un drago sbuffante immerse in un atmosfera infernale? No! E’ “soltanto” il complesso siderurgico dell’Ilva. Un capolavoro di bruttezza e inettitudine umana. Il residuato di quella che fu l’era industriale del Mezzogiorno che fece sorgere in mezzo al deserto dell’economia meridionale una serie di orrende e moleste cattedrali. Il classico “pugno nell’occhio”, insomma.

Ai tempi dell’Iri, Italsider, industria di Stato, ora Ilva, a capitale e gestione privati, ancora oggi il complesso siderurgico di Taranto costituisce la più grande industria per la lavorazione dell’acciaio d’Europa. Un leviatano di ferro e fuoco costruito a partire dagli anni ’60 sottraendo terre e cultura ai braccianti del posto che ha finito per alterare completamente l’identità del territorio. Un’epoca in cui la società dei consumi ancora non aveva corrotto le menti e le coscienze degli italiani e in cui, soprattutto, i tarantini potevano liberamente ammirare le loro bellezze naturali e respirare l’aria del loro fantastico golfo. La Taranto di una volta può essere solo immaginata estendendo lo sguardo verso le spiagge selvagge e incontaminate dell’alto Ionio salentino.

In prossimità del raccordo con la SS106 Jonica, il complesso riempie tutto lo sguardo di sé ed una sensazione di pericolo s’impossessa di te. Ai bordi della carreggiata una strana sabbia rossa contribuisce a rendere l’atmosfera marziana. Un odore acre ammorba l’aria che diventa rapidamente irrespirabile. Chiudere i bocchettoni dell’aria in auto è d’obbligo. E non c’è Autorizzazione Integrale Ambientale (AIA) che tenga! Il pensiero va subito a cosa potesse essere l’aria di questo posto prima della riduzione delle emissioni nocive imposte tra il 2012 e 2013, quando il “mostro” era capace di disperdere nell’ambiente l’85% della diossina emessa nell’intero Paese. Pensi alle decine e decine di persone che sono morte per cancro e patologie neurologiche, alle statistiche sull’autismo che parlano di questa terra come una di quelle che dà al mondo più bimbi affetti da tale patologia.

Un cartello stradale ti annuncia beffardamente la prossimità del Rione Tamburi, quartiere rassegnato, oppresso dai fumi, al cimitero. Una svolta è sei dunque, in tutti i sensi, sul binario morto della vita. Sei in una delle aree più inquinate del mondo. Non è il momento di fermarsi, eppure vorresti sentire dalla bocca degli abitanti di questo quartiere dormitorio, popolato da poco più di 15 mila anime, come è possibile andare avanti in un posto simile. Ti chiedi come lo stesso istinto di venire qui, di capire e di fermare definitivamente un dramma ormai decennale non abbia assalito le coscienze della classe dirigente del tuo Paese. Mediti per un attimo sulla cinica contrapposizione lavoro-salute, ma poi volgi lo sguardo alle tue spalle, osservi disgustato il mostro che si allontana ed esclami senza esitazione: ma quale lavoro! Lavorare, produrre, consumare, tutto questo non dovrebbe mai finire col mettere in secondo piano il diritto fondamentale che qualsiasi democrazia che si rispetti deve garantire ai suoi cittadini: il diritto alla vita e alla salute. Rifletti su come governi e amministratori locali, anche e soprattutto di sinistra, davanti alla fasulla alternativa lavoro-salute, in nome di un’ideologia sviluppista e di una sudditanza psicologica, più o meno interessata, verso i grandi gruppi industriali, abbiano potuto anche solo per un attimo tentennare.

La Statale Jonica si distende davanti a te. Altri paesaggi, altri orizzonti ti aspettano. La mente ti gioca un ultimo scherzo e così ripensi alle parole scritte nell’ordinanza di sequestro dei giudici nell’estate di tre anni fa: “Chi gestiva e gestisce l’Ilva ha continuato nell’attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza”. E così, con un ultimo sussulto della memoria, capisci il significato di quella targa affissa dai cittadini del Rione Tamburi, esasperati da anni d’irresponsabile avvelenamento dell’aria del loro quartiere: “Nei giorni di vento nord – nord/ovest, veniamo sepolti da polveri di minerale e soffocati da esalazioni di gas provenienti dalla zona industriale Ilva. Per tutto questo gli stessi maledicono coloro che possono fare e non fanno nulla per riparare”. Una maledizione a cui si associano senza difficoltà tutti i cittadini che credono nel valore della vita umana e nel rispetto dell’ambiente, doni, è bene sempre ricordarlo, entrambi unici.