Attacco alla memoria

Liberazione 25aprile Resistenza


E venne un nuovo 25 Aprile. E venne con esso ancora a molti, la voglia di falsificare il significato di una ricorrenza civile fondamentale della nostra storia nazionale. Un desiderio irrefrenabile di rinnegare le radici antifasciste della Repubblica, di offuscare il contributo di tanti italiani e italiane che con la loro lotta e il loro sacrificio posero le basi della democrazia in cui ancora oggi viviamo. Tutti!

Dagli anni Ottanta, con il decisionismo e il rampantismo dell’era Craxi, il progressivo disimpegno politico delle masse, il lento venir meno dell’egemonia culturale della sinistra storica, e l’avanzata delle destre liberiste nel resto del mondo, la Festa di Liberazione, fino ad allora largamente riconosciuta e celebrata dagli italiani, ha iniziato a far storcere il naso a molti. Si è iniziato a parlare di una data “divisiva”, di una festa “di parte”. E a sinistra, in quel che ne rimaneva dopo la liquidazione del PCI, c’era chi parlava di “pacificazione” tra vincitori e vinti. A questo coro crescente, in cui torti e ragioni hanno preso ad esser confusi e spartiti equamente, si è poi aggiunto parte importante del mondo dell’informazione e della cultura che ha lavorato sodo affinché la narrazione attorno alla Resistenza si trasformasse da lotta di liberazione a guerra civile. La stessa verità storica sul fascismo ha cominciato pericolosamente ad esser messa in discussione. In troppi hanno preso a raccontare quel ventennio come una fase qualsiasi della storia nazionale, e non come una parentesi tragica, una pagina nera del nostro passato.

Col tempo la vulgata su quello che è stato un regime dittatoriale infame, che prima ha privato gli italiani della libertà per poi condurli alla catastrofe della guerra, ha iniziato a costellarsi di “però ha fatto anche cose buone”. Un progressivo sdoganamento che tra banalizzazione e folklore ha visto crescere a tutti i livelli un preoccupante sentimento di benevolenza verso l’ideologia e l’esperienza storica del fascismo. In questo senso, la riduzione a metafora calcistica del 25 Aprile come un “derby tra comunisti e fascisti”, operata con linguaggio da bar dello sport da un ministro della Repubblica, è sommamente esemplificativa, oltreché, sia detto, profondamente approssimativa, visto che trascura il fatto che la resistenza al fascismo non fu affare solo di comunisti ma moto popolare diffuso e articolato.

Un’orgia revisionista e qualunquista, dunque, che recuperando la vecchia storia degli “opposti estremismi” ed equiparando le ragioni di chi lottò per la libertà con quelle di chi si schierò al fianco dell’invasore nazista, nasconde l’obiettivo ultimo di gettare tutto nel calderone della negazione: il fascismo è morto, o al massimo è roba passata, quindi perché ancora star qui a menarcela con l’antifascismo? Eppure la tesi dell’inattualità del fascismo fa a pugni con la sequela ormai quotidiana di episodi di razzismo piccolo o grande, di violenza fisica o verbale, di disprezzo del debole o del diverso. “L’intelligenza non avrà mai peso, mai nel giudizio di questa pubblica opinione. Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai da una dei milioni d’anime della nostra nazione un giudizio netto, interamente indignato”, scriveva anni fa Pasolini, a proposito di noi italiani. Una deriva truce e disumana che il poeta già intravedeva, e alla quale chi ci governa oggi sta provando in tutti i modi a farci abituare. E chissà che non ci sia già riuscito.